Nuovo libro dell'ex inviato della Stampa: "Cambiato il modo di raccontare i conflitti"

 La battaglia di Mosul è in diretta streaming sul web, gli attivisti e il regime di Damasco raccontano la guerra siriana su Facebook, lo Stato islamico diffonde video sui social media, gli eserciti pubblicano su Twitter le dichiarazioni dei loro comandanti. Qualcosa è cambiato nel modo di raccontare le guerra. Questo è il tema che Mimmo Candito affronta nel libro 'C'erano i reporter di guerra. Storia di un giornalismo in crisi da Hemingway ai social network' (Baldini & Castoldi). Storica firma de 'La Stampa' e per decenni corrispondente di guerra, presidente italiano dell'associazione Reporter senza frontiere, Candito aggiorna e cala nell'attualità il suo precedente 'I reporter di guerra. Storia di un giornalismo pericoloso da Hemingway a Internet'. Nel suo libro precedente '55 vasche. Le guerre, il cancro e quella forza dentro' (Rizzoli) aveva invece raccontato la sua malattia.

Perché quel 'C'erano'?
 

"Il libro percorre 150 anni di storia del mondo attraverso le guerre e i giornalisti che le hanno raccontate. 'C'erano' sulla copertina è scritto a mano, come a correggere la storia: le ultime 150 pagine nascono dal fatto che le nuove tecnologie hanno occupato lo spazio narrativo che prima era del giornalismo e stanno emarginando il ruolo del corrispondente di guerra. L'invio del reporter nella zona di conflitto costa e gli editori sfruttano le offerte alternative, di minor qualità ma più economiche".

Ci rimette la qualità dell'informazione?
 

"La sfida è restare Homo sapiens e non diventare Homo videns, nella definizione di Giovanni Sartori: non accontentarsi dell'estetica dell'apparenza, ma andare al di sotto della superficie, cercare la realtà. Il giornalista ha il compito di convincere il lettore che oltre l'apparenza esiste una realtà, da conoscere se non si vuole cedere ai trucchi, agli interessi. Inoltre, il dovere del giornalista è raccontare la realtà e l'atto testimoniale sul campo è una garanzia abbastanza solida, ben diversa da quella che dà la raccolta di elementi da una scrivania".

I social media e il web hanno eliminato i filtri tra attori della guerra e lettori. Che cosa è cambiato?
 

"Sta saltando il sistema. Il processo di conoscenza viene modificato dalla produzione e diffusione diretta della propria lettura della realtà, che è consumata come rappresentazione autentica della realtà, invece che come parziale. E' il giornalista a saper dire se un elemento è di parte o non è attendibile, a spiegare il perché, a fornire strumenti interpretativi. Il consumo invece spesso rifugge dall'analisi: di un video su youtube non ci si chiede chi lo proponga e perché, quanto sia parziale. E' l'espansione dell'embedding, l'assegnazione di giornalisti a reparti operativi militari sul campo. Un giornalista del NYT dopo la guerra del Golfo a seguito delle truppe concluse un reportage dicendo: ho visto poco e ho capito ancor meno. Ammise cioé che il suo orizzonte era limitato e che quindi non aveva conoscenza del contesto e dell'intorno".

Il 19 novembre sarà il 15esimo anniversario dell'uccisione in Afghanistan dell'inviata del Corriere Maria Grazia Cutuli. Di recente si è parlato di nuovo del processo per l'uccisione della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi a Mogadiscio. Gli omicidi dei reporter in guerra restano spesso irrisolti.

"Il 98% dei casi non viene risolto. Quando viene ammazzato un reporter, le cause non vengono alla luce. Il giornalismo mette in gioco interessi, che in guerra sono ancor più forti. Cutuli fu uccisa poco dopo che entrammo a Kabul, nel libro racconto quei giorni: quando andai da Jalalabad a Kabul con altri, quasi nessuno volle venire perché il viaggio ci fu descritto come un suicidio. A noi spararono ma riuscimmo a passare, Cutuli e altri che vennero tre giorni dopo furono ammazzati".
 

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