Un viaggio "sentimentale" dalla Phalaenopsis alla Vanda, passando per la Cattleya
Ogni volta che mi accingo a scrivere di orchidee mi trovo sempre in difficoltà. Eppure, da almeno un trentennio, queste piante mi hanno rapito l’anima e dovrei essere entusiasta ogni qualvolta mi trovo nella condizione di parlare di loro. E invece no, fatica assoluta. Il motivo di questa difficoltà me lo sono spiegato negli anni, a mano a mano che approfondivo la conoscenza di questo meraviglioso mondo e, contestualmente, ne rimanevo sempre più affascinato. Ho capito che quando ami profondamente, e quell’amore lo devi raccontare, la paura di tralasciare qualcosa è tanta e ti blocchi, soffermandoti sul pensiero di raggruppare tutto per poterlo esporre nella sua completa totalità. Cosa impossibile da farsi in quanto un amore profondo è così tanto e mutevole da renderne complicata la descrizione: si trasforma, come e insieme a te, e con il tempo ti presenta nuovi aspetti e nuove sfumature da conoscere, ma che già sai che, verosimilmente, ti piaceranno. Insomma, è un qualcosa in continua evoluzione che non ha mai fine.
Con le orchidee a me è successo più o meno questo. In principio incontrai una comunissima Phalaenopsis, fu lei ad incuriosirmi per prima. La Phalaenopsis, l’orchidea che produce fiori che sembrano farfalle (lo si evince anche dall’origine greca del nome, Phalaen e opsis, ovvero simile a una farfalla), è la più conosciuta tra le orchidee e alzi la mano chi non ne ha posseduta almeno una. Di questa varietà mi colpì la stranezza della sua figura: grandi foglie piatte e allungate fuoriuscivano da un vaso trasparente ripieno di pezzetti di corteccia, e anche strambe radici del colore dell’argento cercavano in ogni modo di fare lo stesso. Dal centro della pianta, poi, due steli lunghi e sinuosi si proiettavano verso l’alto sfoggiando boccioli di varie misure e i primi fiori aperti, incredibilmente grandi e sì, somiglianti proprio a delle farfalle. Fu amore a prima vista. Troppo strana e particolare per non affascinarmi, quell’orchidea mi portò ben presto ad approfondire la mia conoscenza di questo misterioso mondo. Ben presto incontrai tante altre varietà, come la profumatissima Cattleya, dai fiori immensi, carnosi e vellutati, dalla fragranza talmente intensa da conficcarsi nella memoria olfattiva e lì rimanerci per sempre. Oppure l’incredibile Vanda, una varietà davvero strana che ha tutto a vista: un openspace botanico di foglie, fiori e radici che fluttuano liberi nell’aria tanto da poterla appendere o appoggiare su di un vaso di vetro trasparente, inserendone un poco le radici, per continuare ad ammirarla nella sua affascinante nudità.
Data la moltitudine di varietà esistenti di cui potervi raccontare, inizierei a parlarvi di queste tre. Partiamo subito con il dire che tutte e tre hanno almeno una cosa in comune: sono piante cosiddette epifite. Le piante epifite in natura crescono nelle giunzioni dei rami degli alberi, in alto, dove c’è più luce, e dove ricavano l’umidità e le sostanze nutritive dai materiali vegetali e dai microrganismi che si depositano nell’incavo che le ospita. Le radici sono carnose e spesse, e sono deputate all’assorbimento delle sostanze liquide, oltre ad essere il mezzo per ancorarsi all’albero che la ospita.
Tutte queste caratteristiche devono assolutamente essere tenute in considerazione al fine di riuscire ad avere orchidee felici e rigogliose nei nostri appartamenti. Innanzitutto, poniamo attenzione alla temperatura. Non possiamo scordarci che stiamo parlando di piante tropicali o sub-tropicali, per cui le condizioni migliori di temperatura dovrebbero oscillare tra i 16°–18°C notturni, ai 22°-24°C durante le ore più calde del giorno. Un altro aspetto molto importante è l’umidità, che deve essere, compatibilmente con il nostro benessere, abbastanza elevata. Saranno quindi opportune delle vaporizzazioni fogliari mattutine, e si potrebbe anche aggiungere dell’argilla espansa, da mantenere sempre umida, nel sottovaso: l’evaporazione dell’acqua regalerà alla pianta l’umidità ottimale. Infine, l’esposizione. Queste orchidee necessitano di molta luce e mal sopportano i raggi diretti del sole, per cui, un davanzale rivolto a nord in estate, ed uno rivolto a sud durante inverno, saranno i luoghi perfetti per le nostre amiche fiorite. Nel caso in cui, invece, non sia possibile fare il tour dei punti cardinali, accertatevi di poter filtrare i raggi solari diretti con una tenda. L’innaffiatura va fatta quando il substrato, formato perlopiù da corteccia e fibra di cocco, risulta essere abbastanza asciutto. Innaffiamole senza timore, anche immergendo il vaso per metà in un contenitore riempito d’acqua tiepida, e lasciamolo a bagnomaria per una ventina di minuti. Effettuata quest’operazione, assisteremo ad una chiara indicazione sulla sazietà idrica della pianta: le radici, dapprima di color grigio-argento, avranno preso una tonalità più verde. Questa variazione di colore sarà come una cartina tornasole che ci indicherà quando sarà nuovamente il momento di innaffiarle. E per concludere, concimiamole regolarmente, in quanto, per mantenersi belle e sane e per regalarci fioriture meravigliose, le piante devono poter mangiare bene.
In fondo funziona così anche per noi esseri umani, ed è lo stesso per quanto concerne l’amore che per mantenersi bene va nutrito, sempre, e che quando è grande e profondo è talmente intimo che a volte può risultare difficile persino descriverlo. Ma questa, forse, è un’altra storia.
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