Il tribunale dei Ministri di Brescia sottolinea che non c'è un nesso tra la mancata attivazione della zona rossa e i morti

Nessun “nesso di causa tra la mancata attivazione della zona rossa e la morte di persone” e un’accusa di epidemia colposa “totalmente infondata”. Con queste parole il Tribunale dei Ministri di Brescia ha archiviato le posizioni dell’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e dell’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, accusati di omicidio ed epidemia colposi e rifiuti d’atti d’ufficio nell’inchiesta della Procura di Bergamo con 19 indagati per la mancata estensione della ‘zona rossa’ in Val Seriana e ad Alzano Lombardo e Nembro a fine febbraio-inizio marzo 2020, in pieno Covid. E per la non attuazione del piano pandemico (non aggiornato) del 2006 che secondo gli inquirenti e il consulente dei pm, Andrea Crisanti, avrebbero risparmiato la vita a oltre 4.148 persone, di cui 55 ad Alzano e 108 a Nembro, evitando “la diffusione incontrollata” del virus. La perizia del microbiologo oggi parlamentare del Pd sarebbe però uno “studio teorico” che “non è stato in grado di rispondere circa il nesso di causa tra la mancata attivazione della zona rossa e la morte di persone determinate”, scrive il collegio composto dai giudici Mariarosa Clara Pipponzi (presidente), Vincenzo Domenico Scibetta e Michele Stagno nelle 29 pagine di ordinanza. “La contestazione dell’omicidio colposo in relazione alla morte delle persone indicate si basa su una mera ipotesi teorica sfornita del ben che minimo riscontro”.

Sposata la tesi dei difensori di Conte – avvocato Caterina Malavenda – e Speranza – professor Guido Calvi e avvocato Danilo Leva – anche per quanto riguarda il piano pandemico del 2006. “Gli autori del Piano – scrivono i giudici – si sono espressi in termini drastici circa l’inutilità” dello stesso “per affrontare la pandemia”. Rispetto alle condotte omissive contestate a Speranza “non risulta” che “abbia indotto i dirigenti ministeriali a ritardare od omettere le azioni di sorveglianza epidemiologica, di sanità pubblica, di verifica delle dotazioni dei dispositivi medici e delle risorse necessarie a contrastare la diffusione virale” ma anzi “lungi dal rimanere inerte, ha adottato le misure sanitarie propostegli dagli esperti di cui si è avvalso”.

L’ex premier e leader del Movimento Cinque Stelle veniva invece accusato di “non aver esteso la zona rossa il 2 marzo 2020”. Un’ipotesi di reato “neppure astrattamente configurabile” per il tribunale perché a quella data “non risulta che il Presidente del Consiglio fosse stato informato della situazione dei comuni di Nembro e Alzano Lombardo” e sarebbe comunque “irragionevole pretendere che il Presidente del Consiglio dovesse assumere la decisione di istituire una zona rossa, seduta stante, non appena avute informazioni” sullo “stato del contagio nei comuni” verso “le ore 18 del 2 marzo”. A maggior ragione perché bisognava “valutare e contemperare i diritti costituzionali coinvolti dall’istituzione della zona rossa” come “il diritto al lavoro, il diritto di circolazione, il diritto di riunione, l’esercizio del diritto di culto” e “la chiusura delle scuole” con “limitazioni al diritto allo studio” oltre al “diritto di iniziativa economica, creando ricadute gravissime in termini di occupazione, di crisi sociale e di produzione del Pil nazionale”. Parole che chiudono – almeno per i due esponenti del governo giallo-rosso – la stagione del Covid e i relativi strascichi giudiziari.

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