Lampedusa (Agrigento), 7 ott. (LaPresse) – Azham ha 30 anni, è siriana, il capo coperto da un velo grigio e nero, il volto pulito, sembra più giovane della sua età, ma intorno agli occhi porta i segni della stanchezza e del dolore. Accetta di parlare soltanto dopo molte rassicurazioni: non vuole essere ripresa né fotografata. Non parla l’inglese, per comprendere le sue parole è necessario l’interprete, che parla con lei in arabo traducendo le domande e le risposte. Dietro Azham c’è suo marito, che ascolta in silenzio. E’ più vecchio di lei e le tiene una mano sulla spalla, mentre dalla bocca della moglie prende di nuovo vita il racconto del loro lungo viaggio. E’ al Centro di permanenza temporanea di Lampedusa dallo scorso 3 ottobre, quando il barcone su cui viaggiava, proveniente dalla Libia, è arrivato nelle acque dell’isola. Il suo è uno dei due pescherecci giunti in Italia la notte tra giovedì e venerdì. L’altro è bruciato e si è inabissato in fondo al mare, causando un’ecatombe. “Sono stata fortunata – dice Azham – perché io e la mia famiglia siamo ancora vivi”. La carretta del mare che l’ha portata qui ora si trova al molo Favarolo, proprio accanto al punto in cui da quattro giorni le motovedette della guardia costiera scaricano a gruppi le salme recuperate dalla stiva del barcone.

Con Azham e il marito al centro ci sono anche i loro due figli, uno di 13 e uno di 12 anni. Lei non vuole rivelare il loro nome, “per proteggerli”, si scusa. La paura delle ritorsioni è tanta ed è il motivo per cui quasi tutti i migranti che si trovano al centro non vogliono lasciarsi intervistare. Di fronte alle macchine fotografiche e alle videocamere si nascondono o si coprono la testa con teli di fortuna. Le immagini potrebbero arrivare fino ai loro Paesi e se qualcuno dovesse riconoscerli, raccontano, i parenti che sono rimasti rischiano di essere minacciati, derubati, e le donne violentate. Una punizione, per aver scelto di affrontare mesi di viaggio alla ricerca di un futuro. Un’onta da cui è meglio prendere le distanze. Azham ha lasciato la Siria di Bashar Assad. Viveva vicino ad Aleppo con la sua famiglia, ma la guerra, la paura, i rumori delle bombe, i cecchini l’hanno spinta a mettere in borsa qualche gioco per i bambini, qualche abito di ricambio e pochi, pochissimi effetti personali. “Il nostro viaggio – racconta guardando negli occhi – è durato due mesi”.

Da Aleppo è passata attraverso la Giordania, l’Egitto e, infine, la Libia, dove si è imbarcata. Sessanta giorni pesanti e faticosi, perché, racconta, “non ci siamo trovati bene in nessuno di questi Paesi. L’accoglienza non è stata buona” e le difficoltà “erano all’ordine del giorno”. Poi l’arrivo a Tripoli, i pochi risparmi affidati agli scafisti, il viaggio infinito sul peschereccio blu e, infine, l’arrivo a poche miglia da Lampedusa. Con lei sul barcone altri 462 siriani, tra cui 30 minori, compresa una bambina di appena 2 mesi.

Seduta dietro Azham, sotto una tettoia in cemento, c’è un’altra donna siriana, vestita completamente di nero. Non accetta di farsi intervistare da un uomo che vorrebbe riprenderla, nemmeno dietro la promessa che il suo volto sarà offuscato. Parla poco l’inglese e rifiuta di parlare anche con noi, nonostante l’intervento dell’interprete che in arabo la rassicura sul fatto che si tratta soltanto di un’intervista e non di un servizio per la tv. Mentre dice ‘no’ ci sorride. Poi si alza, ci passa accanto e senza farsi notare dalle forze dell’ordine e dai responsabili del centro ci spiega in un inglese imperfetto che vorrebbe parlare con noi, ma senza l’interprete e in un luogo meno esposto. Un colloquio solo tra donne, lascia intendere. Ma non c’è modo, perché la visita al Cpt dura poco. Piove forte, iniziano i turni per il pranzo e anche il tempo a disposizione con Azham sta per concludersi. La donna vestita di nero sorride ancora, ha compreso che non sarà possibile raccontare oggi la sua storia. Unisce le mani davanti al petto, china la testa e socchiude gli occhi prima di salutarci.

Il viaggio di Azham, dice la giovane siriana, non deve finire qui. “Vorrei andare in Svizzera”, racconta, “dove ci sono alcuni miei parenti e dove, mi hanno detto, si sta bene”. La vita al centro di Lampedusa non è per sempre. E’ una struttura temporanea, lo dice anche la ‘t’ nell’acronimo (Cpt), ma per arrivare dall’altra parte delle Alpi la strada è ancora lunga.

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