di Fabio De Ponte

Roma, 30 dic. (LaPresse) – “Un giorno le cinesi mi raccontano che la notte hanno visto degli uomini salire sui muri. Sono felici ed emozionate, qualcuno è riuscito a scappare. Non è così difficile evadere. Se uno è un po’ atletico riesce a salire sui tetti e a scavalcare”. La testimonianza raccolta da LaPresse di una mediatrice culturale del Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma, si riferisce a fatti avvenuti oltre due anni fa. “Mi avvicino al settore maschile – prosegue il racconto – e sento un poliziotto che, parlando al telefonino, riferendosi apparentemente a chi non è riuscito a scappare, esclama: ‘Li abbiamo massacrati di botte’. Mi ricordo che ho pensato immediatamente ‘Io da qui me ne vado appena posso'”.

Alessandra Arezzo, specializzata in lingua e cultura cinese aveva un contratto interinale che durava appena 30 giorni: una formula identica a quella utilizzata per molti mediatori e operatori nel Cie di Torino, come LaPresse ha potuto documentare recentemente nell’ambito di questa inchiesta a puntate sui Cie. Decise di non rinnovarlo. Lavorava nella sezione femminile.

Quel giorno – era il marzo 2011 – potè assistere anche all’interrogatorio: “Vengo chiamata a fare da interprete – racconta – per un funzionario dell’ufficio immigrazione della questura che non parla inglese e che ha deciso di convocare le donne, tutte nigeriane, che avevano preso parte alle proteste”. Qualcuna aveva dato fuoco agli arredi interni della struttura, come spesso accade. Il funzionario, continua, “prende una giacca e la porge sulla scrivania dicendo: ‘Chiedile se vuole bruciare anche ora qui davanti a me la giacca, se vuole rifare la stessa cosa’. Per tutte le ragazze è la stessa sinfonia: ‘Spiegale che hanno sbagliato, io le faccio rimpatriare tutte'”. Loro fanno finta di non capire e non confessano: stavano giocando a carte, è la loro risposta. Ammettere qualcosa significherebbe prendersi una denuncia e passare dal Cie al carcere. “Non potevo resistere e ho lasciato quel lavoro”, continua la testimonianza. Troppo simile a un campo di concentramento: “Una volta al giorno – spiega – alla sera gli operatori fanno la conta dei reclusi”.

Ma qualche momento di gioia – racconta Arezzo – si può vivere anche nel Centro di identificazione ed espulsione: “Ogni volta che una donna esce, o per scadenza dei termini o perché ha ottenuto asilo politico o un permesso per motivi umanitari, è grande festa. Le dimostrazioni di gioia sono sempre diverse a seconda della nazionalità di chi lascia il centro. Se la fortunata è nigeriana le connazionali la accompagnano ballando e cantando. Le cinesi tendono a offrire, sia alle recluse che al personale, bevande che prendono dalle macchinette. Le ucraine invece sono molto discrete, accompagnano timidamente la loro connazionale e la salutano”.

“La conta degli ospiti”, confermano dalla cooperativa Auxilium, che gestisce il Cie, “si fa due volte al giorno, una al mattino e una alla sera. Gli operatori comunicano poi il numero alla polizia presente nella struttura”. Gli operatori attualmente, precisa la stessa cooperativa, hanno un contratto a tempo indeterminato secondo il Ccnl delle cooperative sociali.

Nel Cie c’è anche la borsa nera. Ogni recluso ha diritto a un buono quotidiano di tre euro e mezzo – circa cento euro al mese – che può spendere allo spaccio interno. Due euro e mezzo – spiega la Auxilium – sono previsti dalla convenzione con la prefettura di Roma, un altro euro lo aggiunge la cooperativa. I soldi – racconta Arezzo – non potrebbero entrare, ma qualcuno trova il modo di portarli dentro. E così si sviluppa anche il mercato nero: i cinesi vendono quello che allo spaccio non si trova oppure comprano le cose con i buoni e le rivendono a un prezzo inferiore per incassare contanti.

Dopo le rivolte degli ultimi giorni, ora la situazione – fanno sapere dalla cooperativa – è tornata alla normalità. Nessun immigrato è in sciopero della fame. Restano – spiegano – la richiesta di tempi certi per le identificazioni e l’appello a ridurre i periodi di reclusione
nella struttura.

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