Dal nostro inviato Fabio De Ponte

Herat (Afghanistan), 16 feb. (LaPresse) – “L’operazione logistica di ritiro dall’Afghanistan è la più importante dopo la seconda guerra mondiale per le nostre forze armate”. A spiegarlo è il tenente colonnello Marco Mele. L’Italia si sta preparando a lasciare il Paese a fine 2014. Già un migliaio di uomini è rientrato nel corso del 2013, ne restano ancora 2.300. Un po’ per volta rientrano i mezzi. “La cosa più complessa – racconta – è quella di stabilire i tempi. Quando far rientrare gli elicotteri? Bisogna stabilire qual è il momento migliore, perché si rischia di rimanere senza mezzi per le missioni.

D’altra parte non si può aspettare l’ultimo minuto. C’è una organizzazione piuttosto complessa”. C’è un team di esperti che si occupa specificamente di questo problema.

Al centro di questo sforzo logistico c’è la base logistica italiana di Al Bateen, piccolo scalo aeroportuale militare di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Nel 2010, spiega il comandante della base, il colonnello Antonino Monaco, sono transitate da qui 50mila persone per le missioni. A fare la parte del leone naturalmente l’Afghanistan. Ma questo scalo serve per diverse operazioni. E’ da qui, per esempio, che è partita la missione di evacuazione per gli italiani in Sud Sudan a dicembre 2013. Con la progressiva riduzione della presenza italiana in Afghanistan – erano quasi cinquemila gli uomini nel momento di picco, ora sono meno della metà – si è ridotto anche il traffico in questo scalo. “Siamo a circa 25mila transiti all’anno – spiega Monaco -. C’è molta movimentazione rientro. Il grafico dei transiti di andata verso l’Afghanistan si è ridotto fortemente, mentre è cresciuto quello dei movimenti in direzione opposta”.

Quello degli uomini di Al Bateen è un lavoro difficile, soprattutto per le condizioni climatiche. Se d’inverno ci si gode il caldo – a febbraio ci sono oltre venti gradi già nelle prime ore del mattino – d’estate l’afa è insopportabile. “Ad agosto abbiamo raggiunto – racconta il comandante – i 47 gradi, con un livello di umidità del settanta per cento. E’ infernale, ma bisogna lavorare lo stesso, perché le operazioni non si fermano”.

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