Di Denise Faticante

Roma, 21 apr. (LaPresse) – Un giubbotto galleggiante in alto mare, segno di qualcuno che non ce l’ha fatta, e gli strali di Papa Bergoglio contro “la globalizzazione dell’indifferenza”. Lo sfondo era quello del mare di Lampedusa e proprio questo mare, ha visto salpare Phoenix, la prima imbarcazione privata destinata alle operazioni di soccorso nel Canale di Sicilia. Regina Catrambone è la mente ma anche il cuore di questa iniziativa. Lei, calabrese di origine che dal 2008 vive a Malta col marito americano, è la fondatrice di Moas, una Ong acronimo di Migrant Offshore Aid Station, una sorta di pronto soccorso galleggiante. La prima missione della sua nave, un’imbarcazione di venti metri con 20 persone di equipaggio, è partita da Malta lo scorso 26 agosto, fino a ottobre. Ora il due maggio si riparte, ma stavolta si sta al largo per sei mesi.

DOMANDA: Signora Cadrambone, nel marasma che sopraggiunge dopo ogni tragedia, lei lavora silenziosamente. Cosa l’ha spinta e cosa la spinge oggi a salvare vite umane?

RISPOSTA Le parole del Papa a Lampedusa, la vista di quel giubbotto mentre ero in vacanza, sì mi hanno impressionato e mi hanno spinto a mettermi in gioco e in prima linea. Bergoglio fece appello a tutti, cittadini e istituzioni. E lì ho sentito che anche noi, io e mio marito, potevamo fare qualcosa. Così abbiamo individuato una nave di 40 metri in Virginia, l’abbiamo portata a Malta e qui abbiamo costruito ad hoc una piattaforma.

D: Da chi è composto l’equipaggio di bordo?

R: A Bordo ci sono venti persone tra operatori, ingegneri, piloti, medici, infermieri e operatori di droni.

D: I droni?

R: Sì, abbiamo due droni dotati di eco e termo scandaglio notturno per individuare le barche in difficoltà (la nave si muove a dieci nodi all’ora, il drone a 60, arriva nel posto in anticipo, scatta una foto e la invia al centro di comando).

D: Ma come vi relazionate con la guardia costiera e con le autorità competenti?

R: La regola del mare prevede che chiunque si trovi in acqua salvi chi è in difficoltà. Noi ci posizioniamo in acque internazionali: siamo attivi, ossia recuperiamo persone, ma anche passivi, facciamo da ‘ombra’: con i droni mandiamo informazioni e attendiamo gli interventi.

D: Durante la vostra scorsa missione c’era ‘Mare nostrum’, ora è in vigore ‘Triton’: vi sentite meno protetti?

R: Triton è nata con altri obiettivi. Noi continuiamo con la nostra missione anche perché, e questo è poco pubblicizzato, l’Italia è comunque presente nel Canale di Sicilia.

D: Lei ha partecipato alla prima missione, che esperienza è stata?

R: La cosa più difficile è far capire al mondo che quelle sono persone come noi. Non c’è più grande gratificazione che incrociare lo sguardo di gente che trai in salvo. Salvare vite umane è la cosa migliore che io possa fare. Vieni a contatto con un mondo sconosciuto: dentro quelle imbarcazioni esistono, come sulla terraferma classi sociali: c’è la prima e la terza classe. La terza classe è quella che sta in basso, nella stiva, dove vengono stipati in genere africani sub-sahariani, che sono quelli che pagano di meno il viaggio. In alto, sopra di loro, ci sono quelli della prima classe, in genere siriani e palestinesi, che possono spendere di più.

D: Ma come finanziate la missione e quanto è stato l’investimento iniziale?

R: Affrontiamo le spese tutte di tasca nostra. Scusi ma io non amo mai parlare di questo argomento, perché spostare il discorso sul denaro svia da quello che noi facciamo davvero: ossia salvare vite umane. Siamo una Ong abbiamo anche delle donazione. Il nostro personale viene pagato tranne chi sale sulla nave a fare il volontario, come i medici. Il resto non conta.

D: Tutta la sua famiglia è coinvolta nell’iniziativa, anche sua figlia che ha 19 anni.

R: Sì, mia figlia Maria Luisa è stata in missione. Era necessario che vedesse con i suoi stessi occhi quanto è stata fortunata a non essere nata in quelle terre martoriate.

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