di Fabio De Ponte
Roma, 21 mag. (LaPresse) – “Non c’è un modo legale per venire in Italia” per i migranti che arrivano con i barconi: non avrebbero modo di salire su un aereo in Africa e sbarcare a Fiumicino. Così sono costretti a tentare la sorte in mare. E quando arrivano, se vengono intercettati dalle autorità italiane, “obiettivamente sono obbligati a chiedere l’asilo politico”, visto che diversamente scatterebbe l’iter dell’espulsione. E’ il quadro offerto da una persona che da molti anni lavora con gli immigrati alla questura di Roma, che chiede di restare nell’anonimato perché le sue dichiarazioni non sono autorizzate dal Viminale. “Ci sono – dice – delle modifiche da fare alla legge sull’immigrazione, sicuro al cento per cento”.
Per arrivare legalmente in Italia, spiega, “si può entrare con un permesso studio e poi chiedere la conversione” ma è riservato naturalmente solo agli studenti; oppure si può ottenere un visto per turismo ma, scaduto quello, restare significa comunque entrare nell’illegalità. O ancora si può accedere a una delle sanatorie che ogni tanto arrivano. Ma per farlo occorre essere in Italia illegalmente e possibilmente anche poter provare di essere qui da molto tempo, il che trasforma l’illegalità in un titolo di merito. Poi ci sono i decreti flussi, “però parliamo di persone che devono conoscere il datore di lavoro dall’estero. E’ contraddittorio – dice l’esperto – perché io, datore di lavoro, come faccio a chiamare uno che teoricamente non conosco? Oppure, se lo conosco, come lo conosco? Non è che ci sia un elenco in ambasciata di quelli che vogliono venire in Italia. Quello del decreto flussi è un meccanismo alquanto discutibile, è una situazione poco chiara”. Per ultimo ci sono i ricongiungimenti familiari. Anche in quel caso, però, “il primo è arrivato illegalmente per forza”.
Allora si tenta il mare e, quando va bene, si riesce ad arrivare. Se non si viene intercettati ci si dà alla macchia, altrimenti si chiede il visto. In questo caso, per i primi sei mesi da quando viene avanzata la richiesta, non è consentito lavorare. Col paradosso che, tra quelli provenienti dall’Africa, gli unici registrati all’ingresso sul territorio nazionale sono quelli che non lavorano. Gli altri fanno in nero. Questi no, perché sono controllati. Ma potrebbero fare volontariato, come dice il ministro dell’Interno Angelino Alfano? “Alfano dovrebbe smetterla di dire stupidaggini e fare un progetto serio con persone competenti”, risponde.
Così strutturato, il sistema scarica una massa di pratiche impossibile da gestire sulle questure, primo anello di una filiera schiacciata dal peso dei numeri, col risultato che le risposte alle richieste di asilo richiedono a volte anche anni. “Quante ne fanno quelli di lacrime – racconta – all’ufficio immigrazione”. “Non ci sono abbastanza date nel calendario – spiega – se andiamo avanti così tra un po’ ci vorrà l’agenda del 2025. Nell’agenda della scientifica, che si occupa del fotosegnalamento, non ci sono più date disponibili”. “Gli immigrati – spiega – sono troppi, siamo una catena di montaggio, in ufficio non abbiamo letteralmente neanche il tempo di andare al bagno”.
“Funziona così – prosegue -: quando arrivano dobbiamo raccogliere le istanze, occuparci del fotosegnalamento, trascrivere tutto ciò che c’è da trascrivere, preparare i fascicoli, verificare le convocazioni alle commissioni, l’assegnazione nei posti dei centri di accoglienza”.
L’iter burocratico è legato soprattutto alla necessità di identificazione. “Per esempio – spiega – quando arriva una famiglia, noi non sappiamo se i figli sono davvero loro, per cui ci vogliono le pratiche per il dna. Poi ci sono quelli che dicono di avere vent’anni e invece scopri che sono minorenni. C’è un iter di riconocimento dell’individuo, tutti devono essere fotosegnalati”.
“Queste persone – continua – arrivano in Italia in condizioni drammatiche e non è vero che gli stiamo facendo un favore. Li stiamo trattenendo in condizioni disumane e impazziscono. Tre anni fa – racconta – sono stato al centro di Civitavecchia, nella ex caserma”. A Civitavecchia, utilizzando la ex Caserma De Carolis, fu realizzato il campo di accoglienza più grande del Lazio, con i primi arrivi dalla Libia nel novembre del 2011, un centro chiuso poi nel 2013. Ora, di fronte alla nuova emergenza, sempre lì sta riaprendo un nuovo centro.
“Per la prima volta in vita mia – ricorda – ho avuto realmente paura.
Erano impazziti. Stavano chiusi lì dentro a pascolare, dopo dieci giorni in quei campetti non ce la facevano più”.
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