Di Mauro Ravarino
Torino, 7 ago. (LaPresse) – Sull’asfalto del Cie di corso Brunelleschi, a Torino, il caldo di questi giorni diventa ancora più insostenibile. Rovente. Dietro alle alte sbarre gli 81 ospiti della struttura cercano riparo nei pochi spazi d’ombra. I loro Paesi di origine sono Marocco, Tunisia, Nigeria e Senegal, ma anche Albania, Georgia e Ghana. Sono divisi in piccoli edifici, per nulla confortevoli; dalle porte si intravvedono le camere spoglie, i letti sgangherati, le televisioni appese al soffitto, i muri scrostati dentro e incendiati fuori, segno delle ultime rivolte dei migranti. I Centri di identificazione ed espulsione sono un buco nero, sai quando entri ma non quando esci. Un limbo di attesa che per alcuni si prolunga per 90 giorni.
Il Cie di Torino, dopo 15 anni di gestione da parte della Croce Rossa, è stato assegnato alla francese Gepsa, società leader nella logistica di penitenziari e centri di detenzione temporanea, e all’associazione culturale Acuarinto di Agrigento, unici concorrenti ad aver partecipato alla gara d’appalto, nonché gli stessi gestori del Cie di Ponte Galeria a Roma. “L’attuale capienza – spiega il direttore del centro, Emilio Agnello – è di 90 persone, nel bando erano 180, ma alcune strutture sono state danneggiate da precedenti rivolte. Tre sono i mediatori, un palestinese, una camerunense e una nigeriana. Siamo gli unici senza divisa qui dentro”.
Il resto degli operatori sono agenti di polizia e militari dell’esercito. “Su 81 ‘trattenuti’ il 35-40% arriva direttamente dal carcere, l’80% ha esperienze di detenzione in istituti penitenziari, il reato più comune è spaccio di sostanze stupefacenti; 17 hanno richiesto asilo ma i casi di accoglimento sono molto rari“, spiega un ispettore di polizia, che opera da oltre dieci anni nel Cie di corso Brunelleschi.
Oltre il 70% dei migranti viene rimpatriato, i restanti, una volta ricostruita l’identità all’interno del Cie, ricevono il decreto prefettizio di espulsione e viene loro intimato di abbandonare il territorio italiano entro 7 giorni.
Superati gli uffici, situati verso via Mazzarello, dove avvengono le convalide del trattenimento dei cittadini stranieri e i colloqui con avvocati o familiari, si arriva nel cuore della struttura. La dirigente della Prefettura di Torino Valeria Sabatino spiega che sono vietate fotografie e riprese. Gli ospiti si avvicinano alle sbarre, sono tutti uomini, la maggior parte a petto nudo.
Gli operatori sostengono che le camere siano climatizzate. “Non è vero, da quando ci sono non funzionano, si muore dal caldo, si stava meglio in carcere”, racconta Ahmed, marocchino, da 14 anni in Italia, di cui 5 e mezzo passati in carcere per spaccio. Portato nel Cie mesi dopo aver scontato la pena, perché senza documenti, spiega: “Nella vita si fanno sbagli, ma questo non giustifica un trattamento disumano come quello che subiamo ogni giorno. Ho deciso di fare lo sciopero della fame”.
Sono sei o sette le persone all’interno del Centro che hanno scelto di intraprendere questa forma di protesta nonviolenta. L’obiettivo è raggiungere ‘condizioni al limite’ per essere rilasciati quando diventano incompatibili con la reclusione.
Maxwell ha 35 anni, proviene dal Ghana, faceva il muratore, racconta i suoi problemi di dipendenza dalle droghe, è nel Cie da 17 giorni: “Non vedo l’ora di rivedere la luce fuori da qui”, dice. Ndoje, senegalese, è padre di tre figli: “Puoi aver commesso reati, ma dopo aver scontato una pena devi poterti reinserire nella società, non finire in un Cie. Noi, ricordatevi, prima di tutto e prima di essere clandestini, siamo esseri umani, non meritiamo un trattamento simile. La Storia un giorno condannerà i responsabili“. Chkara ha vissuto a Como, dove si è fatto un po’ di carcere e ha incominciato a seguire un percorso terapeutico con il Sert locale: “Sogno un’altra vita. Non dietro alle sbarre. Una comunità di recupero, La Centralina di Morbegno (Sondrio), si è detta disposta a prendermi in affidamento”.
Jabali, 21 anni, ha il volto di un ragazzino: “Sono arrivato minorenne in Italia, nel 2007, e a Udine ho frequentato la scuola. E ho incominciato a vivere come un qualsiasi coetaneo italiano. Sono qui da 50 giorni e mi vogliono spedire in Tunisia, ma io non voglio. Che ci vado a fare lì? Ormai la mia vita è in Italia”. Aidarai Abedì è un giovane albanese: “Io, invece, voglio tornare in Albania, mia madre sta male, voglio andarmene da qui, non mi interessa far casino. Voglio solo riabbracciare la mia famiglia”.
Nella zona detta ‘dell’ospedaletto’, utilizzata per ‘isolamento’ medico non disciplinare, ci sono due giovani, un senegalese e un nigeriano del Biafra. Gli operatori dicono che sono stati messi lì perché omosessuali, “per proteggerli”. “Di certo non l’abbiamo scelto noi – spiega il secondo – qui dentro moriamo dal caldo e dormiamo senza materassi. Vogliono rispedirmi in Nigeria, ma lì mi ucciderebbero. Ho chiesto asilo politico”.
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