Palermo, 2 nov. (LaPresse) – Sono 22 i provvedimenti cautelari nei confronti di capi e gregari del mandamento mafioso di Bagheria, accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, sequestro di persona e danneggiamento a seguito di incendio. Ad eseguirli da questa mattina i carabinieri del Comando Provinciale di Palermo. Le indagini hanno evidenziato la soffocante pressione estorsiva esercitata dai boss che, dal 2003 al 2013, si sono succeduti ai vertici del sodalizio mafioso. Cinquanta le estorsioni scoperte grazie alla dettagliata ricostruzione fornita da 36 imprenditori locali che hanno trovato il coraggio di ribellarsi al giogo del “pizzo”.

Lo scenario delle “imposizioni” si presenta estremamente ricco e variegato: anche se il clan prediligeva il settore dell’edilizia, ogni realtà locale doveva versare la sua quota. Dai negozi di mobili e di abbigliamento, alle attività all’ingrosso di frutta e di pesce, ai bar, alle sale giochi, ai centri scommesse.

Le indagini, avviate nel maggio 2013, ovvero all’indomani dell’operazione ‘Argo’, condotte dai carabinieri del nucleo investigativo di Palermo e della Compagnia di Bagheria con il coordinamento della Direzione distrettuale a ntimafia di Palermo, sono in parte confluite nell’operazione ‘Reset’.
Una cinquantina le estorsioni documentate anche grazie alla dettagliata ricostruzione fornita da 36 imprenditori locali che hanno trovato il coraggio, dopo decenni di silenzio, di ribellarsi al giogo del ‘pizzo’. Tra questi rientra la drammatica vicenda di un imprenditore edile che racconta di aver iniziato a mettersi “a posto” già negli anni ’90 e di non essere più riuscito a non pagare, vedendosi addirittura costretto per 10 anni a versare 3 milioni di lire al mese alla famiglia del reggente del mandamento mentre era in carcere, oltre a dover pagare al sodalizio significative percentuali dell’importo degli appalti aggiudicati. Da lì l’inizio di un’odissea che ha ridotto sul lastrico la vittima costringendola a cessare l’attività e a vendere anche la propria abitazione per far fronte alle perduranti richieste estorsive.

Diversi i riscontri nelle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e, non di meno, nelle attività d’intercettazione. Alcune conversazioni, infatti, dimostrano ancora una volta come la riscossione del ‘pizzo’, secondo un consolidato protocollo mafioso di mutua assistenza, fosse un imprescindibile strumento per il mantenimento delle famiglie dei carcerati.

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