Il magistrato palermitano del processo sulla trattativa Stato-mafia è diventato cittadino onorario del capoluogo lombardo
"Dire che la mafia non spara più non è concettualmente onesto: perdere la percezione della sua minaccia è pericoloso. Non sarà vinta finchè non si inciderà sul problema: i rapporti con la politica, di cui si nutre". Sono le parole del pm Antonino Di Matteo che tuonano dall'aula 208 dell'Università Statale di Milano di via Festa del perdono titolata alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La stanza è affollata e la sicurezza è costretta a chiudere uno dei due ingressi. Oggi il magistrato palermitano del processo sulla trattativa Stato-mafia è diventato cittadino onorario del capoluogo lombardo: un'onorificenza assegnata dal Comune con una delibera della Commissione consigliare antimafia su proposta delle associazioni WikiMafia e Agende rosse. "Sono onorato che sia successo a Milano, città che ha scritto le pagine della Resistenza al nazifascismo", commenta Di Matteo, invitando a intraprendere "una nuova resistenza: contro la logica delle appartenenze: economiche, massoniche, lobbistiche. Accettarle significa esserne complici", mette in guardia il pm.
"Un sigillo civico posto su una comunanza di valori e di azione nella lotta contro l'oppressione mafiosa, per la libertà, la legalità e la Costituzione repubblicana", sono le motivazioni del riconoscimento. "Ignorare è il regalo più grande che si può fare al sistema mafioso, approfittate di questi anni di studio per dare una spinta al cambiamento", dice agli studenti 'interrogato' nell'ateneo dal professore di Sociologia della criminalità organizzata Nando dalla Chiesa, figlio del generale ucciso da cosa nostra il 3 settembre 1982. Di Matteo si sofferma sul percorso umano e professionale che dalla sua isola, la Sicilia, lo ha portato a diventare un pubblico ministero sotto scorta: "Quando misero la bomba per Falcone all'Addaura ero tra lo scritto e l'orale del concorso in magistratura. E sentivo le voci che giravano a palazzo di giustizia: era un attentato autoinventato per far accrescere la sua fama di giudice, dicevano mistificando per isolare. Cosa che qualcuno tenta di fare ancora oggi con alcuni magistrati e investigatori che cercano di far luce, osteggiati se non ritenuti un peso nel loro stesso ambiente lavorativo".
E' nel cortile del carcere milanese di Opera che Salvatore Riina, il 6 novembre 2013, esplicita i suoi propositi di morte per il pm Nino di Matteo. Ad ascoltarlo c'è Alberto Lorusso della Sacra Corona Unita. "Un'esecuzione come quel tempo a Palermo", dice il capo dei capi registrato dalle telecamere della Dia. Vito Ciancimino della Dc, l'omicidio del parlamentare siciliano Salvo Rima, i Ros dell'Arma dei carabinieri: il magistrato ripercorre la storia politica e criminale degli anni Novanta, le indagini e i presunti depistaggi, con una premessa: "La ricostruzione sarà parziale fino a quando non ci sarà la collaborazione di chi quei fatti li ha vissuti". Di Matteo parla di una costante: "È nel dna della mafia la ricerca dei poteri politici ed economici: le teste pensanti hanno lucida consapevolezza dei vantaggi che si ottengono. Senza, non potrebbero avere la forza che oggi hanno". Ecco perchè secondo Di Matteo, che confida al pubblico di 20enni di oscillare "tra grande pessimismo e qualche momento di speranza e ottimismo", la guerra contro la mafia non è ancora vinta: "Lo Stato non ha ancora dimostrato di aver acquisito quella speculare forza e volontà per recidere definitivamente i legami tra mafia e potere. E la legislatura in vigore è inadeguata: certi patti politici ed elettorali corrotti dovrebbero essere considerati persino più gravi dell'essere affiliati – denuncia – Forniscono al sodalizio la forza micidiale dell'intimidazione, di potere di ricatto nei confronti della cittadinanza e delle istituzioni". E a gli chiede perchè, nonostante le minacce, non si sia tirato indietro, Di Matteo tira un sospiro, alza gli occhi, sorride e risponde: "Amo il mio lavoro".
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