A dieci anni da quello storico arresto LaPresse ha ricostruito la cattura con I.M.D. , poliziotto palermitano ex membro della Catturandi che partecipò al blitz
Morto oggi 13 luglio a Milano il boss mafioso Bernardo Provenzano. Riproponiamo l'intervista riguardante l'11 aprile 2006, quando veniva arrestato in una masseria di Corleone l'allora capo di Cosa Nostra, dopo decenni di latitanza A dieci anni da quello storico arresto LaPresse aveva ricostruito la cattura con I.M.D. , poliziotto palermitano ex membro della Catturandi che partecipò al blitz e autore dei libri "La Catturandi – La verità oltre le fiction" e "Catturandi. Da Provenzano ai Lo Piccolo: come si stana un pericoloso latitante". Un percorso a ritroso per capire come nasce un'indagine così importante come si dipana la ricerca di un latitante del calibro di Provenzano, tra fatica, determinazione e difficoltà. I.M.D. , attivo nella Catturandi per 18 anni dal 1995 al 2013, ora è sempre in polizia ma si occupa di Mafie internazionali e prostituzione.
Dieci anni fa il blitz storico contro Provenzano, allora al vertice di Cosa Nostra: che cosa si ricorda di quel giorno, dopo quanto tempo eravate arrivati a lui?
Ricordo con precisione quando, a metà aprile del 1998, iniziammo l'indagine su Provenzano, il giorno dopo la cattura di un altro importante latitante come Vito Vitale. Eravamo diventati così "bravi" da ricevere l'incarico di catturare quello che era il numero uno di Cosa Nostra. Poi sono passati tanti anni, otto, dove le attività sono state faticose e anche difficili per complessità di indagini e per la stanchezza di lavorare tanti anni sempre sullo stesso caso. Il giorno della cattura la cosa più importante che ricordo è stata l'emozione di aver trovato finalmente quello che per noi rappresentava un "fantasma", che fino a quel momento non aveva carne. Era solo un nome e una vecchia fotografia: vederselo di fronte è stato uno choc, forse per entrambi. Noi avevamo finalmente raggiunto un obiettivo incredibile.
Subito dopo l'arresto si parlò dei ritardi, vi furono polemiche perché avvenne il giorno dopo le elezioni. Il boss poteva essere catturato prima, è vero?
I latitanti si prendono quando si raccolgono elementi sufficienti per poter entrare in una casa, in una capanna o in una botola e prendere qualcuno. Noi quando diamo la caccia a un latitante siamo fuori dal mondo, non pensiamo alle elezioni politiche, all'arrivo degli ufo o altro. L'abbiamo catturato quel giorno perché solo quel giorno abbiamo avuto la conferma che in quella masseria ci fosse qualcuno, al 90% Bernardo Provenzano. Non ci sono altre spiegazioni.
Riguardo al valore di quell'arresto, ora, passati dieci anni, come lo valuta? Fu cruciale oppure Binnu era un pezzo ormai diventato sacrificabile nell'ottica dei nuovi assestamenti di potere di Cosa Nostra?
Provenzano è scappato tre volte alla cattura. Quando lo abbiamo preso abbiamo trovato un pizzino dove un mafioso dell'ennese gli chiedeva l'autorizzazione per commettere un omicidio. Quindi era, al momento, al vertice dell'organizzazione. In alcuni pizzini anche boss del calibro di Lo Piccolo e Messina Denaro parlavano con lui. Che fosse un operativo, il capo, è indiscutibile. Che poi fosse diventato lo specchietto per le allodole, mentre altri boss crescevano e si arricchivano, questo è pur vero, non possiamo negarlo. Ad un certo punto, durante le indagini su Provenzano, anche noi abbiamo avuto una scissione. Siccome eravamo tutti e 50 nella ricerca del boss ci dividemmo: 18 continuarono la ricerca e lo catturano, ma gli altri si concentrarono a cercare i Lo Piccolo che stavano diventando i padroni di Palermo e provincia. Fu una mossa intelligente, che permise di catturare entrambi.
Di fatto Provenzano era il punto su cui tutti si concentravano…
Provenzano serviva all'organizzazione fuori, serviva per svariati motivi: intanto perché concentrava gli interessi di magistratura e forze dell'ordine verso di lui, deviandolo da altri settori. In secondo luogo era un valore simbolico di unione dell'organizzazione mafiosa e serviva a Cosa Nostra per evitare che ci fossero delle guerre interne. Un uomo di equilibrio che era l'ago della bilancia, senza di lui ci sarebbe stata un'ipotetica guerra di mafia.
Come ha vissuto, quell'arresto e altri arresti? Lavorare nella Catturandi vi avrà esposto alle attenzioni dei sorvegliati, probabilmente gli stessi che hanno garantito per anni la latitanza di un boss del calibro di Provenzano.
Si tratta di un lavoro bello, difficile, anche pericoloso. E' chiaro che si tratta di una battaglia, fatta anche di strategie. L'omicidio, per la mafia, rimane la mossa finale che ha chiaramente dei contraccolpi molto forti. Noi cerchiamo di porre in atto delle contromisure che ci permettano di lavorare in serenità e sicurezza. Per fortuna spesso funziona, a volte funziona meno: abbiamo vissuto momenti di grande tensione interna quando sono arrivate minacce circostanziate e molto precise ad operatori del mio gruppo che teoricamente dovevano essere in incognito e sconosciuti. Abbiamo accelerato le attività frenetiche del gruppo che è molto coeso. Messi in sicurezza i colleghi individuati, si è continuato a lavorare ottenendo i risultati sperati.
Un tempo si era più esposti?
Quando le indagini le facevano singoli poliziotti, venivano individuati e uccisi. Ora si fanno indagini di equipe, anche la mafia lo sa. Uccidere un poliziotto, un carabiniere o un finanziere o un magistrato, sarebbe davvero una mossa estrema che segnerebbe uno scontro frontale e questo lo si cerca di evitare.
Le vostre indagini hanno mai subito rallentamenti a causa di mancanza di fondi?
Non è mai successo che risorse fosse distratte dalla lotta alla mafia. Non che il dipartimento le distraesse, a volte proprio non c'erano. Ma non si è mai rinunciato all'attività di indagine: il poliziotto va e poi aspetta che venga pagato. Anticipa e poi verrà rimborsato. Questo è uno dei grandi meriti, non si pensa a timbrare il cartellino, ma i poliziotti lavorano e riconoscono il valore di quanto stanno facendo. Noi, a due anni dalla cattura Provenzano, in una manifestazione chiedemmo il pagamento degli straordinari che ancora ci spettavano. Continuavamo a lavorare ma volevamo ricordare che i latitanti non li avevano presi i politici ma i poliziotti che dovevano essere pagati.
I famosi pizzini di Provenzano divennero, all'epoca, un vero e proprio feticcio nelle cronache. Che valore avevano e ora i boss li usano ancora, o usano cose più tecnologiche?
I pizzini rimangono lo strumento prediletto dai vecchi padrini ma anche dai giovani. Lo stesso Alessandro Lo Piccolo, classe '83, quando comunicava lo faceva attraverso i pizzini che sono trai messaggi meno intercettabili, rispetto a strumenti telematici che devono essere veicolati da un oggetto fisico. Proprio durante le indagini su Provenzano fummo i primi a infettare con un virus un computer utilizzato da uno dei postini di Matteo Messina Denaro: mentre lui trasferiva i messaggi trascrivendoli al computer noi leggevamo praticamente quasi in diretta cosa c'era scritto. Oltre ai mafiosi tout court ci sono colletti bianchi che li spalleggiano: intercettazioni telematiche e ambientali lì sono utili nelle indagini.
Ora la primula rossa per eccellenza di Cosa Nostra è Matteo Messina Denaro. Nei giorni scorsi hanno arrestato persone vicine al boss. Il cerchio si sta veramente stringendo?
Anche volendo non posso rispondere. Le attività di indagine sui latitanti sono imprevedibili, potrei dire che sto catturando qualcuno un minuto primo o appena intercettato perché fare previsioni è veramente folle. Possiamo avere la percezione di aver seguito la pista giusta, ma come fu anche per Provenzano, capitò che ci sfuggisse più volte anche quando credevamo che fosse lui. Ricordo la cattura del mafioso Benedetto Spera, pensavamo inizialmente fosse il capo di Cosa Nostra. Forse Provenzano sarebbe arrivato 10/15 minuti dopo ma da quello che risulta, visto il blitz, si allontanò. Eravamo certi fosse lui ma è invece sfumato tutto.
Che ruolo ha, nel 2016, l'apporto dei colletti bianchi nel garantire le latitanze ? Dal suo osservatorio che cosa può dire sulla nota e controversa vicenda della trattativa Stato-mafia la latitanza di Provenzano?
Le nostre indagini su Provenzano sono state molto settoriali. Tante cose che noi raccoglievamo sul boss venivano congelate e passate ad altri uffici perché non di interesse immediato per la cattura del latitante: ma è chiaro che lavorando otto anni su un personaggio del suo calibro è venuto fuori di tutto da quelle indagini. E anche il collegamento indissolubile e inscindibile con la politica. Ricordiamo che durante le ricerche ci sono stati arresti eccellenti in Sicilia, tutto un substrato di white-collar, utilizzati dalla mafia.
Poi c'è una evoluzione: abbiamo visto che alcuni soggetti che facevano parte del corpo politico/amministrativo sono diventati mafiosi, addirittura anche elementi di spicco. Questo per me non significa che la mafia sia entrata nello Stato o che ci sia un rapporto intenso tra mafia e Stato, di identità. L'appoggio a Cosa Nostra è per vantaggio e utilità. Lo dico da cittadino e non da poliziotto, non avendo mai lavorato sul tema della trattativa: per me c'è stata ma non tra Stato e Mafia, ma tra mafiosi e individui che hanno avuto agevolazioni personali (per sé, famiglia o associazione politiche) e facevano parte dell'apparato statale.
Cosa pensi dell'antimafia sociale, ritieni che il lavoro educativo sia ancora importante per il contrasto alle organizzazioni criminali?
Sono andato via dalla Catturandi perché era diventato per me difficile lavorare nel mondo del "sociale" oltre a fare il poliziotto nel gruppo Catturandi. Ho ritenuto egualmente importante attivarmi nel sociale e lasciare spazio ad altri investigatori. Per me è fondamentale, come dicevano Boris Giuliano e Ninni Cassarà, me lo ha insegnato l'esperienza: quando la Catturandi prendeva un latitante e rimaneva chiusa all'interno degli uffici della Polizia, la cosa finiva lì e non se ne parlava. Da quando abbiamo fatto entrare i ragazzi delle associazioni antimafia si è creata una rete così forte, tanto forte, che a un certo punto, dopo una cattura, quando uscivano fuori non arrivavano i familiari dei mafiosi a prende a calci le nostre auto, ma i ragazzi con le trombette e i tricolori. I segnali sono fortissimi in un mondo quello mafioso che vive molto di simbolismi. Questo è frutto di sinergia tra polizia e società civile che cresce: ci vuole uno scambio, abbiamo bisogno della società per andare avanti, altrimenti accadrà come in passato, che una macchina della polizia appostata in un quartiere di Palermo veniva segnalata dalle persone ai mafiosi, in cambio di un favore.
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