Dagli inizi alla cattura: ascesa e declino del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano

 Un ultraottantenne ricoverato all'ospedale San Paolo di Milano, costantemente a letto e in uno stato clinico "gravemente deteriorato dal punto di vista cognitivo". Chi avesse di fronte oggi Bernardo Provenzano, corleonese doc, classe 1933, potrebbe scambiarlo per un innocuo vecchietto, fiaccato dalla malattia e da un cancro alla vescica. Il suo passato però dice altro: Zu Binnu, oppure Binnu u tratturi (Bernardo il trattore, per la violenza con cui stroncava le vite dei nemici) è stato uno dei criminali più spietati degli ultimi 50 anni, re di Cosa Nostra dal '93 al 2006 e condannato in contumacia a 3 ergastoli. Latitante per ben 43 anni, Provenzano per il Ministero della Giustizia merita ancora il carcere duro, nonostante, secondo i medici, sia ormai incapace di intendere e volere. Il boss siciliano rappresenta in carne e ossa alcune delle pagine più nere della storia italiana recente: come braccio destro di Riina, impartisce l'ordine degli attentati di Capaci e via d'Amelio nel 1992, le stragi in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E c'è sempre la sua mano nell'autobomba di via dei Georgofili a Firenze. Oggi ricorre il decennale del suo arresto, avvenuto in un casolare a pochi passi da dove era nato, in località Contrada dei Cavalli, a Corleone, in provincia di Palermo. A tradire il boss pare sia stato l'ultimo suo pizzino, inviato alla moglie la mattina stessa dell'arresto.

GLI INIZI. Terzo di sette figli di Angelo, bracciante agricolo, non finisce la seconda elementare per seguire il padre nei campi. Giovanissimo, si unisce al mafioso Luciano Liggio, che lo affilia alla cosca locale. Subito la sua fama è quella di terribile killer sanguinario e di ottimo tiratore di pistola. A inizio anni Sessanta è spietato protagonista della prima guerra di mafia palermitana contro il clan Navarra, quando, nel pieno del conflitto, si registra più di un omicidio al giorno. Diventa latitante il 18 settembre 1963: i carabinieri di Corleone lo denunciano per l'omicidio di Francesco Paolo Streva, uomo del clan Navarra, commesso una settimana prima. In un rapporto protocollato dalle forze dell'ordine, Provenzano viene definito senza mezzi termini "elemento scaltro, coraggioso e vendicativo che si sposta con due pistole alla cintola".

Approda ai vertici di Cosa nostra all'inizio degli anni '80 e in quel periodo riesce a gestire la sua latitanza nella zona di Bagheria riciclando denaro sporco grazie a fortunati investimenti nel settore immobiliare. Ma la sua furia omicida non si ferma: nel 1981 con Totò Riina (al cui cospetto per alcuni Provenzano era "un nuovo Einstein") dà linfa alla seconda guerra di mafia, eliminando i boss rivali (i clan Inzerillo e Bontate arricchitisi con il traffico di droga) e formando una nuova 'Commissione', composta da capimandamento fedelissimi.

IL COMANDO DI COSA NOSTRA. Nel 1993, dopo l'arresto di Riina, 'Zu Binnu', prende le redini di Cosa Nostra, cambiando radicalmente il modo d'agire tipico della mafia corleonese. La sua ricetta? La 'mediazione', con l'infiltrazione costante nelle istituzioni e l'obiettivo (poi raggiunto) di far diventare la mafia quasi invisibile e meno cruenta. Il suo volto rimane ignoto anche ai picciotti: il suo mezzo di comunicazione sono i pizzini, bigliettini di carta con appunti spesso sgrammaticati e con riferimenti religiosi con gli ordini.

Nel decennio successivo le indagini serrate delle forze dell'ordine non riescono a localizzare Provenzano, che poteva contare su connivenze anche tra gli investigatori. Nel 2003 viene segnalato presso una clinica francese vicino Marsiglia. Nel 2006 la sua cattura: l'allora 73enne non oppone minimamente resistenza e chiede solo l'occorrente per delle iniezioni. A quel punto comincia un iter tra varie carceri italiane: dopo Terni viene spostato a Novara, ma da lì riesce a comunicare con l'esterno, come se non potesse rinunciare al suo ruolo di capopopolo mafioso. Allora ecco il 41 bis, il carcere duro: nel 2012 il boss tenta il suicidio a Parma, mentre da due anni si trova detenuto a Milano.

Quattro anni fa la Procura di Palermo, aveva chiesto il suo rinvio a giudizio assieme ad altri 11 indagati accusati di concorso esterno in associazione mafiosa e violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Il processo, a causa delle sue condizioni di salute non è mai iniziato, permettendogli forse di nascondere per sempre i segreti sulla presunta trattativa Stato-Mafia. Difficile però che il superboss potesse rivelare qualcosa. Una prova? La celebre frase pronunciata davanti ai pm palermitani: "Per dire io la verità 'avissi parrari' male di cristiani, scusatemi".
 

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