La storia nel libro 'Sanpa, madre amorosa e crudele'. Sulla querela dei figli di Muccioli a Netflix: "Di tutto quello che ho detto e scritto rispondo. Alla comunità e agli eredi del fondatore parrà scomodo ma sanno che è vero"

SANPA

“Di tutto quello che ho detto e scritto rispondo. Alla comunità e agli eredi del fondatore parrà scomodo ma sanno che è vero”. A parlare a LaPresse è Fabio Cantelli Anibaldi, una delle voci principali della docu-serie di Netflix ‘SanPa’ sulla storia della comunità di San Patrignano. Commenta così la rezione della comunità, che si è subito dissociata da quanto emerge dalla serie, e dei figli del fondatore Vincenzo Muccioli, che hanno querelato Netflix: “C’è stato un momento in cui San Patrignano ha perso l’anima: quando la sua immagine pubblica è diventata più importante di quella interiore, la sola a dire la verità”. Lui, che in quella comunità terapeutica di recupero è stato dieci anni, la racconta così: “La vita non la puoi giudicare, ridurre a un verdetto, di assoluzione o colpevolezza che sia. La vita è troppo grande e libera per le nostre sentenze, di cui peraltro se ne frega”. La sua visione della storia è raccontata anche nel suo libro, recentemente riedito da Giunti ‘Sanpa, madre amorosa e crudele’

È entrato a San Patrignano nel 1983: ‘riluttante’, spiega nel libro. Perché? Quanti anni aveva?

Sono entrato a San Patrignano a 21 anni, il 15 ottobre del 1983, data che posso dimenticare. Non era la prima comunità, ero già stato a “Le Patriarche”, in Francia, dopo essere finito in carcere. Solo a quella condizione il magistrato mi avrebbe fatto uscire da San Vittore. Ci restai solo qualche mese e tornato a Milano la situazione peggiorò. In estate accettai, dopo un acceso negoziato con mia madre, di andare a vedere questa San Patrignano di cui già si parlava per i metodi forti. Incontrai Vincenzo Muccioli per un colloquio esplorativo, e già quella volta m’impressionò la sua mole e il suo sguardo magnetico, scrutatore. Pensai che fosse meglio starne alla larga. Era agosto, riprecipitato nel mio abisso, fui costretto due mesi dopo a tornare. Ci arrivai anche grazie alla mediazione di Indro Montanelli, direttore del giornale di cui mio padre era critico cinematografico. Montanelli conosceva bene la famiglia Moratti, in particolare Gian Marco.

Qual era il coinvolgimento della famiglia Moratti?

Gian Marco era un miliardario atipico, con una grande sensibilità umana. Credo anche con un forte senso di colpa per la sua enorme ricchezza, che sentiva il bisogno di condividere. Aveva conosciuto Vincenzo e ne era rimasto affascinato. Era nato un sodalizio.  Gian Marco e Letizia venivano ogni fine settimana in comunità, ci passavano le vacanze, il Natale, dormendo nei primi anni in una roulotte. Vedevo questa coppia affabile, gentile, e pensando che avrebbero potuto essere a Portofino o Saint Moritz, invece che in mezzo al fango con noi, non potevo fare a meno di ammirarli. 

Racconta di essere scappato più volte. Tornava spontaneamente? 

L’inizio è stato molto tribolato. Tra l’ottobre dell’83 e il febbraio dell’84 scappai quattro volte. Alla quarta decisi di non tornare, di arrangiarmi come avevo sempre fatto. Ero un tossico randagio, che sapeva cavarsela. L’aver iniziato dall’eroina mi aveva gettato subito nella mischia, nella vita di strada. Eppure, nei pochi momenti di lucidità, mi tornava in mente quel posto. Che pur sembrandomi una caserma aveva un che di attraente che non mi spiegavo, qualcosa che non avevo trovato da nessun’altra parte.

Foto del marzo 1985

Cos’era quel qualcosa in più?

Quel qualcosa in più era Vincenzo Muccioli. Aveva realizzato un villaggio a sua immagine e somiglianza. Con regole non scritte, il cui senso ci veniva ogni volta pazientemente spiegato. Un posto organizzato ma non freddo. Un grembo esigente. Come l’eroina, che è un grembo inflessibile, che non ammette assenze, diserzioni: se te ne allontani inizi a stare come un cane. 

Anche lei è stato ‘rinchiuso’, una delle critiche mosse alla comunità fin dall’inizio?

Io sono stato rinchiuso ma il mio è un caso limite, anomalo. Quando sono stato sequestrato erano passati quattro mesi dalla mia ultima fuga. Non si trattò dunque di una punizione, ma di un tentativo estremo di salvarmi la vita. I 18 giorni in quello stanzino, nel parco della comunità, sono stati i più spaventosi e insieme importanti della mia vita. Tentai il suicidio, senza riuscirci. Ma alla fine incontrai me stesso, presi coscienza di me e decisi di avere cura di me. Quello è stato il passo decisivo, l’inizio del cambiamento. Tra me e me, penso che da quello stanzino io non sono mai uscito. Lì ho conosciuto il mio abisso e lì sono rinato. Mi rendo conto che questo possa scandalizzare i benpensanti, convinti che così giustifico una violenza. Dico solo che quello, con me, era l’unico e forse ultimo modo e Vincenzo lo capì. Il resto sono chiacchiere. Certe cose bisogna averle vissute.

Oggi com’è la comunità? 

Non ho più rapporti, non so nulla. Ma credo che non abbia più nulla a che vedere con la Sanpa di allora, tranne che nel rifiuto di mettersi in discussione, di guardare serenamente errori commessi in un passato ormai remoto, come dimostra la reazione alla docuserie di Netflix, opera onesta e rigorosa, al di là della mia partecipazione. Per loro non esisto. Forse, dopo ventisei anni, continuano a ritenermi un ingrato, un traditore, un figlio da ripudiare. Eppure quella storia – gli piaccia o meno – appartiene anche a me. La vita non la puoi giudicare, ridurre a un verdetto, di assoluzione o colpevolezza che sia. La vita è troppo grande e libera per le nostre sentenze, di cui peraltro se ne frega.  

La reazione della comunità alla docu-serie è stata netta. Così come quella dei figli di Muccioli, che hanno querelato Netflix. Perché, secondo lei?

Quando le realtà si trasformano in istituzioni diventano chiuse, arroccate attorno a una logica fondamentalista, se non settaria. Per la quale non accettano di essere raccontate se non in termini celebrativi. I figli di Muccioli li avevo conosciuti quand’erano ragazzi, avendo qualche anno meno di me. Ma dalla mia uscita, nel ’95, mi hanno ignorato. Ripeto, è come se fossi stato cancellato da una storia incisa nel mio corpo e nella mia anima. Quella che i latini chiamavano “damnatio memoriae”… Di tutto quello che ho detto e scritto rispondo. Alla comunità e agli eredi del fondatore parrà scomodo ma sanno che è vero. Il libro oggi rieditato venne boicottato dalla comunità e quando uscì, mesi dopo, con una casa editrice più piccola, nessuno mi fece causa per diffamazione o per aver scritto falsità. Non puoi rimuovere 15 anni della tua stessa storia. C’è stato un momento in cui San Patrignano ha perso l’anima: quando la sua immagine pubblica è diventata più importante di quella interiore, la sola a dire la verità.

Muccioli è un eroe per lei? Chi è?

Muccioli non è né un eroe né un criminale, non è né l’uno né l’altro. Io lo ho conosciuto come pochi altri. La nostra è stata come una storia d’amore: il colpo di fulmine, i litigi e infine un’affettuosa convivenza, nel reciproco riconoscimento di qualità e limiti. Caratterialmente eravamo agli antipodi: lui esuberante e sanguigno, io riflessivo. “Animale a sangue freddo”, mi chiamava scherzosamente. Io non credo che lucidità e affetto non possono stare assieme. Se Vincenzo e San Patrignano contassero nulla, per me, non avrei scritto quel libro. Ne avrei scritto un altro, dicendo peste e corna della comunità oppure che era il paradiso. Non bisogna confondere l’amore con l’infatuazione: ho visto persone devote, prone al carisma di Vincenzo, che quando le cose si sono messe male hanno iniziato a scaricargli addosso le accuse più infamanti. Questo mi ha fatto pensare. La mia non è stata certo un’infatuazione ma una storia d’amore.

Oggi si assiste a un ritorno delle dipendenze da droghe. Cosa è cambiato?

La droga non è sparita, è solo stata rimossa, cioè un po’ messa sotto il tappeto, un po’ resa più presentabile. La droga è stata inclusa nella società del mercato, sistema che si regge peraltro su meccanismi di dipendenza, è stata ridotta a merce, prodotto di largo consumo a prezzi accessibili. Oggi una dose di eroina costa cinque euro. Ai miei tempi potevi comprare solo bustine da mezzo grammo a 50mila lire. Capita la differenza? La vita di un tossico, oggi, non è più fuorilegge né, quindi, disturbante: oggi per farti non devi più rubare, rapinare, prostituirti. Un tempo il tossico era il vizioso o, più benevolmente, il “deviante”. Ma deviante rispetto a cosa? Alla società del mercato che negli anni Ottanta spadroneggiava euforica? Mi dico che è stata una fortuna, l’aver “deviato”, un’intuizione lungimirante: è nella «selva oscura» che abbiamo recuperato il senso della retta via, delle cose essenziali. Oggi il tossico è un integrato, anche se non lo sa, anche se l’eroina continua a uccidere e se le inquietudini che portano alla droga sono rimaste le stesse.

La pandemia ha cambiato qualcosa?

Oggi la droga te la vengono a portare a casa, come il rider ti porta il cibo. È tutto facilitato: il mercato funziona perché è facile. Questa facilitazione corrompe esperienze che, per quanto potenzialmente letali, erano a loro modo formative. Eri costretto a misurarti con situazioni estreme, a esplorare regioni della vita che mai avresti conosciuto, se non avessi “deviato”. Se ne uscivi, ti ritrovavi più maturo e consapevole di molti  giovani cosiddetti “normali”. La droga stessa è stata normalizzata. Non la “banalità del male” di Hannah Arendt, ma la banalizzazione, che è anche peggio. Un male sottoposto a maquillage perché affrontarlo alle radici vorrebbe dire mettere in discussione l’impianto stesso del mercato. 

 

 

 

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