Rapita, uccisa, segregata in un convento? Indagini e ipotesi si susseguono, anno dopo anno, circondate da un muro di silenzio e di omertà che appare ancora impossibile da scalfire

Il 22 giugno 1983 Emanuela Orlandi, esattamente 40 anni fa, sta tornando a casa, tra le mura leonine da una lezione di musica quando sparisce nel nulla. Rapita, uccisa, segregata in un convento? Indagini e ipotesi si susseguono, anno dopo anno, circondate da un muro di silenzio e di omertà che appare ancora impossibile da scalfire.

Emanuela ha solo quindici anni, ma non è come le sue coetanee. Lei vive in Vaticano ed è la figlia di un messo della prefettura della Casa pontificia. È una cittadina vaticana. Forse questo il motivo per cui è stata proprio lei ad essere rapita? Depistaggi e illusioni di essere vicini alla verità in pesanti quarant’anni. Un calvario iniziato esattamente 40 anni fa quando Emanuela termina la sua lezione di flauto e canto alla scuola di musica Ludovico da Victoria in piazza Sant’Apollinare, tra piazza Navona e Palazzo Madama, a Roma. Sono le 19 quando, in teoria a lezione finita, chiama da una cabina telefonica a casa. A risponderle la sorella Federica: a lei dirà che qualcuno le ha offerto una grossa cifra per distribuire prodotti Avon alla sfilata delle sorelle Fontana. Emanuela dovrebbe prendere un pullman per andare a casa, ma non salirà su quell’autobus. Il perché ancora non è chiaro. Quello che è certo è che da quel momento di lei si perdono le tracce.

Fin da subito il caso appare complesso, con la procura che indaga sulla scomparsa legata a una presunta violenza sessuale, senza toccare la pista Avon, come invece chiede da subito la famiglia. Passano i giorni e di Emanuela non si sa nulla. Il mistero si infittisce quando il 3 luglio, Papa Giovanni Paolo II, oggi santo, esprime la sua vicinanza ai familiari per la scomparsa della giovane. Si tratta di una cittadina vaticana, le parole del Pontefice sono nell’ordine delle cose, ma, due giorni dopo, la Sala stampa Vaticana riceve la telefonata di un uomo dall’accento anglosassone, ribattezzato dalla stampa ‘l’Americano’, che sostiene di avere in ostaggio la ragazza e che l’avrebbe lasciata andare solo dopo la liberazione di Mehmet Alì Agca, l’uomo che sparò a Karol Wojtyla il 13 maggio 1981. Agca sarebbe dovuto uscire dal carcere entro il 20 luglio. La sua richiesta viene replicata anche dal Fronte di Liberazione Turco Anticristiano Turkesh.

Con il tempo emergono altri dettagli, come la richiesta dell’Americano di usare il codice 158, di norma utilizzato per le comunicazioni tra rapitori e Santa Sede, ma intanto spuntano altre piste, una delle quali legherebbe la vicenda anche alla Banda della Magliana. Nel corso degli anni sul caso le varie indagini almeno fino ad oggi, non hanno portato ad alcun risultato. La sorte di Emanuela rimane un mistero, ancora oggi.

Un barlume di speranza si accende quando la Procura Vaticana decide di aprire un fascicolo sul caso, ma, dopo ore di colloquio tra il procuratore Alessandro Diddi e Pietro Orlandi, una dichiarazione del fratello di Emanuela su Giovanni Paolo II rischia di far ricadere il caso nell’oblio. Anche la procura di Roma decide di indagare. Le indagini sono ora divise ora tra i magistrati capitolini e quelli vaticani mentre sullo sfondo sempre più marginale si fa il ruolo del Parlamento. La commissione d’inchiesta è ferma in Senato, dopo le audizioni del pm Diddi, l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e del capo dei pm di Roma, Francesco Lo Voi.

Proprio nel giorno dei 40 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, Diddi ha comunicato di aver trasmetto gli atti alla Procura di Roma. Quarant’anni lunghissimi di silenzio e di flebili speranze per la famiglia di Emanuela, che mai si è arresa né ha smesso di cercarla. 

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