Sconterà la pena in semilibertà. Famiglie vittime: "Magra vittoria", Boccuzzi: "Senso di sconfitta e impunità"

Sedici anni per mettere, forse, la parola ‘fine’ a una delle stragi sul lavoro più tristemente note d’Italia: il rogo della Thyssenkrupp a Torino il 6 dicembre 2007. 5.726 giorni, per chi ha tenuto il conto. Ora per il manager tedesco Harald Espenhahn si aprono le porte del carcere: si troverebbe, secondo i media tedeschi, dietro le sbarre dal 10 agosto. E però sconta la pena in regime di semilibertà: in carcere di notte, fuori di giorno. “Ci restano sempre e solo le briciole. Per loro è stata scritta la parola fine ma per noi il dolore non finisce mai“, commenta a LaPresse Rosina Platì, mamma di una delle vittime, Giuseppe Demasi. È “una magra vittoria, amara”.

Quella notte 7 operai sono morti, Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe De Masi. Sopravvissuto solo Antonio Boccuzzi, che a LaPresse dichiara: “La cosa che mi delude di più è un senso di sconfitta. Avrebbe potuto essere qualcosa che poteva cambiare il Paese sul tema degli infortuni sul lavoro. Lo ha fatto un po’ dal punto di vista della legislazione ma purtroppo ha dato anche un senso di impunità“.

Il manager è stato condannato in via definitiva nel 2016 in Italia, insieme a un altro top manager tedesco e a quelli italiani: mentre i due italiani sono andati immediatamente in carcere, per Espenhahn e Gerald Priegnitz le porte del carcere in Germania non si erano aperte. Intanto, la pena era stata rimodulata a 5 anni, pena massima prevista da Berlino per il reato di omicidio colposo. Poi, tra ricorsi vari, Espenhahn non ha mai iniziato a scontarla, mentre Priegnitz era finito in regime di semilibertà (e tornato libero nel 2022). “Io non perdonerò mai, nemmeno in punto di morte”, dice ancora Platì. “Non c’è un istante della mia vita che io non abbia in mente mio figlio, la fine che ha fatto è terribile”.

C’è un misto di soddisfazione e delusione: “Non è risarcimento o vendetta, solo l’epilogo che si sarebbe dovuto compiere. Se però alla fine non si arriva a una sorta di punizione vera verso chi sbaglia, si dà la sensazione che allora per gli infortuni sul lavoro non ci sia una cura, una soluzione”, aggiunge Boccuzzi. “E’ incredibile però che ci siano voluti 16 anni per chiudere un processo che tutti dicevano sarebbe stato veloce. Ci vogliono 7 anni perché un condannato entri in carcere? C’è qualcosa che non funziona”, dice ancora l’ex parlamentare Pd.

“Dal punto di vista politico la delusione grande è stato il fatto che ci sia stata quasi una passerella politica nei momenti del ricordo. Ma al di là di quello ci veniva detto che i ministri della Giustizia di turno non potevano fare nulla. Resta l’amaro in bocca”, aggiunge Boccuzzi. “Né procura né magistrati ci hanno più aiutati, nemmeno i politici. Ogni volta siamo dovuti andare noi a bussare – dice ancora Rosina Platì a LaPresse – Sapete quanto abbiamo lottato, non ci siamo mai rassegnati”. Il ministro Nordio, però, interviene a sedare le polemiche: “In questi anni, il Ministero ha seguito da vicino il procedimento, per poter assicurare una piena risposta di giustizia alle vittime” ha dichiarato il Guardasigilli. Lo scontare la pena detentiva “è sicuramente un atto dovuto alle famiglie e alla giustizia, sia quella italiana che quella tedesca”, ha dichiarato infine il sindaco di Torino Stefano Lo Russo.

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