Da via Capaci a via D'Amelio fino alle bomber del 1993 a Roma e Milano

“Con le persone che ho ammazzato potrei riempirci un cimitero”. Così si vantava Matteo Messina Denaro, morto la notte scorsa, agli albori di una latitanza che sarebbe durata trent’anni. Ultimo interprete della linea più feroce e sanguinaria di Cosa nostra promossa dai boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, tra gli innumerevoli segreti che Matteo Messina Denaro porta con sè nella tomba ci sono quelli legati al feroce periodo stragista del ’92-’94 che trasformò il Paese in una polveriera, e fece vittime illustri tra servitori dello Stato e inermi cittadini. C’è infatti la sua firma dietro le bombe di Capaci e via D’Amelio, che uccisero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Clausio Traina.

C’è lui dietro le bombe che nell’estate del 1993 spazzarono via le vite innocenti a Roma e Milano. Ai Georgofili, la notte tra il 26 e il 27 maggio, morirono i coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume, con le loro figlie Nadia, di 9 anni, e Caterina, di appena 50 giorni di vita, e lo studente 22enne Dario Capolicchio. In quell’esplosione rimasero ferite altre 37. Sempre lui fu dietro l’attentato a Maurizio Costanzo, la sera del 14 maggio 1993 in via Fauro, che soltanto per una pura casualità non uccise il giornalista con la moglie Maria De Filippi; dietro la bomba di via Palestro a Milano, con un bilancio di 5 vittime e 15 feriti; nonchè delle bombe che esplosero a Roma davanti alle chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, ferendo 22 persone.

E soltanto la fortuna evitò che sulla sua coscienza finissero altri morti il 23 gennaio del 1994. Quel giorno, a Roma, si giocava la partita Roma-Udinese, e un’auto imbottita di tritolo avrebbe dovuto saltare in aria in via dei Gladiatori, proprio alla fine del match, dove si trovava un presidio dei carabinieri. L’esplosione non avvenne per un malfunzionamento del telecomando che avrebbe dovuto innescare l’ordigno.

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