In 102 hanno firmato una lettera aperta inviata alla Procuratrice generale di Milano

Oltre 100 fra operatori penitenziari di Milano, preti, avvocati, associazioni, sindacati e politici contro l’inchiesta della Procura di Milano sulle psicologhe in carcere di Alessia Pifferi. In 102 hanno firmato una lettera aperta inviata alla Procuratrice generale di Milano, Francesca Nanni, e alla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, per esprimere “preoccupazione” rispetto all’indagine del pm Francesco De Tommasi sulle due due professioniste della casa circondariale di San Vittore, indagate per favoreggiamento e falso ideologico, e per le “perquisizioni” in cui sono state coinvolte le “famiglie” delle operatrici condotte e trattenute “in carcere per accertamenti” sotto “gli sguardi” di colleghi e detenuti con dispiego “ingente” di “personale e mezzi delle forze dell’ordine”. Si tratterebbe, secondo i firmatari di un’operazione che “ha come risultato l’intimidazione di tutti gli operatori e rischia di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute e dell’opinione pubblica”.

Tra i firmatari ci sono personaggi come Don Virginio Colmegna, Don Gino Rigoldi, l’intera Cappellania della casa circondariale di Milano, la Cgil di Milano, il Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza Lombardia (Cnca), i consiglieri comunali e avvocati Alessandro Giungi e Simonetta D’Amico, psichiatri e terapeuti delle carceri milanesi di San Vittore, Opera e Bollate e del minorile Beccaria.

Le due professioniste sono accusate di aver messo in atto una “vera e propria attività di consulenza difensiva” non rientrante nelle loro “competenze”, con falsificazione di diagnosi, e “volta a creare” le “condizioni” per “giustificare la somministrazione” di test psicodiagnostico e fornire ad Alessia Pifferi, accusata dell’omicidio volontario pluriaggravato della figlia Diana, “una base documentale che le permettesse di richiedere e ottenere” nel processo “la tanto agognata perizia psichiatrica” in corso in queste settimane. Secondo la procura, che indaga su almeno altri 4 casi di detenute gestite a livello psicologico dalle due professioniste, dalle intercettazioni emerge un movente da ricercarsi in ragioni “antisociali” e convincimenti politici di chi nella vita “avrebbe preferito essere artefice di una vera e propria ‘rivoluzione'” e che “invece ha optato, sfruttando la propria posizione di potere, per una ‘rivolta’, contro lo Stato e la società, condotta ‘scavando la roccia goccia dopo goccia’” cioè “aiutando e favorendo i detenuti” in cella “che ritiene siano delle vittime del sistema”. “Chi lavora in carcere – ribattono i 102 firmatari del documento indirizzato ai vertici della magistratura di sorveglianza e della Procura generale – sa bene che il problema più grande con cui si sta confrontando il sistema penitenziario è la gestione di una popolazione detenuta con un altissimo tasso di malattia psichiatrica, anche grave, o con ritardo cognitivo”. “All’interno delle Case Circondariali e delle Case di Reclusione – proseguono ci sono migliaia di detenuti che non hanno caratteristiche diverse da coloro che ricevono un misura di sicurezza nelle Rems; l’unica differenza sta nel fatto che su di loro nessuno ha disposto una perizia che ne certifichi la patologia psichiatrica o un approfondimento che ne evidenzi il ritardo cognitivo”. “Chi invece è al corrente della salute mentale delle persone sottoposte a giudizio – aggiungono – sono gli operatori penitenziari, che conoscono da vicino la persona e, nella fattispecie di psicologi e psichiatri, possono evidenziarne disturbi e patologie”. Perché allora – concludono – pensare di penalizzare la condivisione di informazioni relative alla salute mentale delle persone detenute, da parte degli operatori sanitari del carcere nei confronti dell’Autorità Giudiziaria?”.

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