“Mio figlio è tornato a casa, da un mese è agli arresti domiciliari. La cosa che fa più rabbia è che lui e i suoi colleghi sono stati definiti delle mele marce, mentre sono servitori dello Stato che si alzano la mattina alle 5 per guadagnarsi un pezzo di pane”. Questo lo sfogo del padre di uno dei 13 agenti della polizia penitenziaria in servizio al carcere minorile Beccaria di Milano che sono stati arrestati ad aprile con l’accusa di maltrattamenti e concorso nel reato di tortura nei confronti dei detenuti, a margine di un presidio organizzato dal Sindacato della polizia penitenziaria (Spp) davanti all’istituto di pena minorile meneghino e volto a chiederne la scarcerazione. “Mio figlio ha 30 anni e ha voluto fortemente fare questo lavoro, lo faceva con molta passione. I detenuti, in senso affettivo, lo chiamavano ‘Sblinky’. Appena si è arruolato c’erano 81 detenuti e 40 agenti, adesso sono arrivati i rinforzi: 44 agenti in più di quelli che c’erano, e i detenuti sono diminuiti a 50, ma succedono sempre rivolte, mettono le mani addosso agli agenti, evasioni, chi più ne ha più ne metta. Quindi non si è risolto niente”, hanno proseguito i genitori dell’agente: “Questi tredici agenti hanno avuto soltanto la colpa di essere venuti a lavorare“. A far loro eco un altro padre: “Io ero onorato di avere un figlio poliziotto, credo nei valori dello Stato, e oggi mi trovo dall’altra parte e sono incredulo per una cosa che per me è irreale. Non stiamo qua a dire cosa deve essere fatto, ci sono le sedi preposte per questo. Ma questi ragazzi sono stati rappresentati come mostri. Oggi sono molto deluso dall’assenza dello Stato”, ha affermato.