La sentenza prevede 8 mesi di reclusione

Otto mesi con pena sospesa ai pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Si chiude con una condanna in primo grado la stagione giudiziaria delle “polpette” avvelenate sui processi Eni. Così i magistrati definivano le chat manipolate e altre prove che il collega Paolo Storari nel 2021 per 2 mesi gli invia come uno “stalker” con “espressa sollecitazione” di trasmetterli alle difese del processo Eni-Nigeria sulla maxitangente da un miliardo di dollari per il giacimento petrolifero Opl 245, per dimostrare che il testimone dell’accusa, Vincenzo Armanna, ex manager Eni, è in realtà un calunniatore-depistatore. Per il tribunale di Brescia (collegio Spanò-Giordano-Pagano), che accoglie la richiesta dei pm Prete-Milanesi-Greco, De Pasquale, 67 anni ed ex procuratore aggiunto a capo del pool reati internazionali, e Spadaro, 48 anni oggi sostituto alla Procura europea Eppo, sono colpevoli di rifiuto d’atti d’ufficio. Li condanna al risarcimento con la Presidenza del Consiglio dell’ex console onorario in Nigeria, Gianfranco Falcioni, parte civile con l’avvocato Pasquale Annicchiarico.

Legale dei pm: “Faremo appello, pericoloso precedente. Processi condizionati dall’esterno“

Non passa la linea del difensore Massimo Dinoia, che annuncia appello in attesa delle motivazioni e attacca: “Pericoloso precedente, i processi saranno condizionati dall’esterno“. Secondo il legale, quelle di Storari non erano né prove né documenti, al massimo ‘bozze’ non depositabili. Sono i 3 scritti di 88 pagine, denominati ‘falsità Armanna’, in cui Storari che indaga con la collega Laura Pedio nel fascicolo ‘Falso complotto Eni’, che ha al centro la figura dell’ex legale esterno della società, ‘l’avvocato dei misteri’, Piero Amara, raccoglie quelle che gli imputati definiscono “interferenze”. Fra cui i WhatsApp del 14-17 dicembre 2019, estratti in copia forense dal telefono di Armanna nel novembre 2020. Ci sono tracce di un pagamento da 50mila dollari a due testimoni del processo Eni-Nigeria, Timy Aya e Isaac Eke, per confermare di essere l’uomo che si è presentato in Africa come lo 007 ‘Viktor’ e di aver visto “gli italiani” imbarcare “trolley pieni di denaro”. La chat Telegram che, a differenza della copia cartacea depositata dall’ex manager, mostra gli “orari” dei messaggi incompatibili e quindi la “contraffazione”. Sparisce la frase “But then i need my money back”. I WhatsApp con Matthew Tonlaga, amministratore della società nigeriana Fenog, dove Armanna suggerisce cosa rispondere a Pedio alla vigilia dell’interrogatorio con rogatoria internazionale del 12 settembre 2019. “È importante che tu spieghi agli italiani che Eni ha cercato di fare pressione su di me”. Le note Vodafone del 2020 che smentiscono che l’ad Eni, Claudio Descalzi, e Granata avessero in uso nel 2013 le utenze da cui partono messaggi sulla possibile riassunzione di Armanna in cambio della ritrattazione della accuse di corruzione. Un video in cui parla della “valanga di merda che faccio arrivare”. Due giorni dopo si presenta a De Pasquale e accusa i vertici del Gruppo. Dal 18 gennaio ’21 Storari invia il materiale a Pedio e al procuratore dell’epoca, Francesco Greco, che il 15 febbraio li gira a De Pasquale e Spadaro. Il 19 febbraio De Pasquale scrive a Pedio. “Indagini fuori dal capo d’imputazione, una galleria degli orrori” e minaccia di far “attivare procedimenti disciplinari”. Il 22 febbraio – a 23 giorni alla sentenza che assolve tutti gli imputati di Eni-Nigeria – chatta con il collega Isidoro Palma che ha sostenuto l’accusa nel processo ‘Saipem-Algeria’. “La tua profezia si è avverata“. Palma gli ha riferito: “La slavina sta cominciando a muoversi. Si è fissato (Storari, ndr) che il suo target è Armanna”. La risposta ufficiale alle ‘falsità’ è del 5 marzo ’21 con una nota. Hanno letto il materiale, lo ritengono vago, confuso e non rilevante. La sera dopo De Pasquale invia a Pedio: “Spero basta polpette, vorrei finire il processo”. Per lui sono “un’accozzaglia di congiunture per distruggere la credibilità di Armanna” si difende in aula e Storari decontestualizza gli episodi. I 50mila dollari pagati non sarebbero per testimoniare in Italia ma per acquistare un file che avrebbe dimostrato l’avvenuta corruzione. Giustificazioni che non convincono il tribunale di Brescia: possono aver pensato a un “atto ostile” ma dovevano depositare le carte e, almeno a posteriori, mettersi nei panni di un collega che scopre chat manipolate. In questo caso, forse, sarebbe caduto il reato per mancanza dell’elemento soggettivo ma un mea culpa da parte dei pm non è mai arrivato. 

 

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