Sandro Castro aveva 22 anni quando, il 9 ottobre 1982, un gruppo di miliziani palestinesi a Roma provocò la morte di un bambino e il ferimento di decine di persone

È il 9 ottobre 1982 quando un commando di terroristi di origine palestinese si macchia di un sanguinoso attentato alla Sinagoga di Roma in un giorno di festa per la comunità ebraica. Nell’attentato viene ucciso un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché. I feriti sono circa 40, alcuni gravi. Sandro Castro aveva solo 22 anni e ricorda quel sabato mattina.

Il racconto di un sopravvissuto all’attentato alla Sinagoga

“Era una giornata di festa in cui si dà la benedizione ai bambini. Stavamo uscendo dal Tempio e all’uscita della funzione c’è stata l’esplosione della prima bomba a mano“, racconta a LaPresse. “Sono stato ferito al polmone e alle gambe. Sono stato ricoverato in terapia intensiva perché quattro schegge avevano bucato il polmone. C’è stata una forte esplosione e ho sentito una botta fortissima al costato. Ho scoperto solo dopo che lo spostamento d’aria mi aveva fratturato tre costole”, ricorda ancora. “C’è stata una seconda esplosione e poi ho sentito i mitra sparare. Molta gente si è nascosta dietro ad alcune macchine. Il ricordo di questo attentato che sembrava non finisse più è forte perché non ho mai perso conoscenza. Sento ancora in maniera nitida le urla della mamma di Stefano Gaj Taché. Ricordo che mentre ancora sparavano c’era un fotografo che stava facendo delle fotografie”, dice ancora Sandro Castro che racconta poi di essere stato ricoverato al Fatebenefratelli. “C’è stato un concorso di solidarietà anche tra i malati che aiutarono gli infermieri a fare i letti”. “Io sono stato ricoverato in terapia intensiva con altri malati. Là è cominciato il problema della degenza, chiesi una radiolina per sentire i giornali, i medici mi misero però un parapetto perché davanti a me era ricoverata la mamma del piccolo Stefano ma non sapeva ancora che il figlio fosse morto. Lo scoprì in un un modo terribile: entrò una suora chiedendo quale fosse la mamma del bambino morto. Ricordo che si alzò staccandosi tutti i fili e cadde per terra perché aveva le gambe fratturate”, continua Castro ricordando che per lui, un ragazzo di 22 anni, quello fu un “dramma nel dramma”.

“C’è un clima di antisemitismo che forse non si respirava dalle leggi razziali”

“Oggi rispetto a quel giorno ci sentiamo sicuramente più protetti e più sicuri. Dal 1967 viviamo blindati, ci abbiamo fatto l’abitudine e ci preoccupiamo se non vediamo le forze dell’ordine davanti alle scuole e alle Sinagoghe” ma confessa “di essere preoccupato dal clima di oggi“. “Il mio abito era color carta da zucchero e stava diventando marrone per il sangue. L’ho conservato, ovviamente pulito e bucato dalle schegge, dentro una scatola. Ogni tanto qualche scheggia ancora esce. Voglio che resti in eredità ai miei nipoti, voglio regalarlo a loro proprio alla luce di quello che sta succedendo in questo momento. C’è un clima di antisemitismo che forse non si respirava dalle leggi razziali”, ha concluso chiedendosi se la memoria veramente serva a qualcosa perché “vedere che il centro delle frasi più pesanti che vengono dette nei confronti degli ebrei escono dalle scuole e dalle università ci fa chiedere l’utilità della memoria, rendendo vani tutti i nostri sforzi”.

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