A 30 anni dall'inizio del maxiprocesso il giornalista ricostruisce la "guerra" di Palermo
Sono passati 30 anni da quel 10 febbraio 1986, quando nell'aula bunker di Palermo si apriva il maxiprocesso per mafia, voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che un anno dopo – l'11 novembre 1987 – inflisse complessivamente 2665 anni di reclusione e condannò all'ergastolo, tra gli altri, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Michele Greco. Una sconfitta per quella mafia che tra il 1981 e il 1985 sconvolse Palermo con una "guerra" che lasciò per strada mille morti. I fatti di quegli anni, i retroscena, i legami con il mondo politico, gli angoli oscuri di un rapporto – quello tra la mafia e la città – sono il cuore di 'I mille morti di Palermo' (edito da Mondadori), ultima fatica di Antonio Calabrò. Il giornalista, 65 anni, ha raccolto nelle 256 pagine del libro gli anni vissuti sul campo come caporedattore di 'L'Ora' proprio nel pieno della guerra di mafia, di quella "catastrofe umanitaria" che ha cambiato per sempre il volto del nostro Paese. Con l'uccisione del boss Stefano Bontade, avvenuta il 23 aprile 1981, si apre ufficialmente la stagione più nera di Palermo, che osserva e viene travolta dalla lotta interna di Cosa Nostra per mettere le mani sui settori più redditizi, dalla droga alle armi, dal riciclaggio di denaro fino agli appalti.
'I mille morti di Palermo', però, è molto di più di un racconto puntuale dei fatti. La cronaca giornalistica, i dialoghi, le cifre, le relazioni ufficiali concedono spazio a ciò che rende un libro basato su fatti reali qualcosa di diverso dalla pagina di un quotidiano: la capacità di trasformare le parole in immagini fluide e concedere al lettore la possibilità di imparare senza sentirsi rinchiuso in una gabbia didascalica.
Il lavoro di Calabrò attraversa tutto il secolo scorso per costruire il contesto nel quale la guerra di mafia ha raggiunto il suo apice. Dalle lotte per le rendite fondiarie, alle lente infiltrazioni nelle strutture di governo e dell'economia, fino alle stragi più note, la morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dei giudici Falcone e Borsellino. E poi, ancora, la tragica fine di Piersanti Mattarella e di Pio La Torre ("alfieri del buon governo", li definisce Calabrò) e di tutti quei poliziotti, giornalisti, medici, carabinieri, magistrati che hanno pagato con il sangue la loro ricerca della verità.
Eppure, nonostante le dimensioni gigantesche di quella guerra, tra le pagine di 'I mille morti di Palermo', c'è spazio anche per la speranza. "Anche nelle istituzioni – scrive Calabrò – al vertice dello Stato, è un momento favorevole per un serio impegno antimafia": il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è "erede dell'impegno del fratello Piersanti", il presidente del Senato Piero Grasso fu, tra le altre cose, "giudice a latere" del maxiprocesso ed è la prova che la Sicilia "è terra di legalità ed è capace di avanzare una robusta domanda di sviluppo equilibrato, ben regolato, civile". "Questo è un momento di passaggio. La mafia indebolita – avverte Calabrò – non va lasciata in pace. Ma incalzata, battuta", anche se, "vale la pena ricordare l'antica lezione di Leonardo Sciascia: 'Temo la mafia proprio quando è silente, non spara'".
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