Roma, 31 ago. (LaPresse) – Hanno continuato a sbattere sull’asfalto i loro caschetti da lavoro per tutto il giorno, instancabili, anche sotto il diluvio. Alla fine, però, hanno dovuto arrendersi. I 56 lavoratori di Alcoa tornano a casa. “Dobbiamo rientrare per riorganizzarci”, spiegano, stremati, alla fine di una due giorni di protesta davanti al ministero dello Sviluppo economico. Urla e fischietti non sono bastati a imprimere una svolta decisiva al tentativo di salvataggio dello stabilimento di alluminio di Portovesme messo in atto dal Governo.
L’incontro di oggi, assicurano dal ministero, è stato “costruttivo”. Glencore, la multinazionale svizzera che dovrebbe rilevare l’impianto, “ha confermato il proprio interesse a discutere della questione Alcoa”, ha chiesto alcuni chiarimenti “in merito alle condizioni di contesto”, come costo dell’energia, condizioni strutturali e ambientali, e “si è riservata di fornire le proprie valutazioni entro una settimana”. Di più. “Per una questione di responsabilità nei confronti dei lavoratori oltre a Glencore stiamo valutando anche altre possibilità”, assicura il sottosegretario allo Sviluppo Economico Claudio De Vincenti al termine dell’incontro. “Abbiamo concordato – aggiunge – le modalità per mettere in sicurezza i lavoratori dell’Alcoa e dell’indotto ove l’impianto dovesse chiudere, ma speriamo di no”.
Ma ai lavoratori non basta. “Avere una risposta domani, questo sarebbe stato un incontro costruttivo. L’incontro è costruttivo se ci fanno lavorare”, attacca Rino Barca, segretario dei metalmeccanici della Cisl. “Noi – spiega alzando un po’ i toni – siamo come la Fiat a Torino, come l’Ilva a Taranto: siamo allo sbando. Solo gli ammortizzatori sociali stanno evitando che succedano cose gravi. La politica deve evitarlo”. Da Portovesme, poi, arrivano notizie non rassicuranti. Un lavoratore interinale di 26 anni, con a casa un bambino di 6 mesi, che lavorava per Alcoa e che ha saputo del mancato rinnovo del suo contratto sale su un silos all’interno dello stabilimento Alcoa, a circa 60 metri da terra. Gli altri lavoratori, in segno di solidarietà, lasciano l’impianto e si dirigono ai cancelli.
“Così non va – spiegano loro i rappresentanti sindacali da Roma – non dobbiamo fermare le celle, loro vogliono questo. Chiamano il prefetto e abbiamo chiuso tutto con le nostre mani”. La tensione rimane alta per oltre un’ora. Poi il giovane scende dal silos e tutti gli altri tornano a lavorare.
A Roma, intanto, i rappresentanti sindacali chiedono e ottengono un incontro con i rappresentanti del Governo e della Regione. De Vincenti assicura loro che l’interesse da parte di Glencore c’è, mentre il presidente della Sardegna Ugo Cappellacci decide di andare ad incontrare i vertici di Alcoa per chiedere una proroga all’inizio dello spegnimento delle celle dell’impianto previsto per lunedì. I lavoratori aspettano il responso di fronte al ministero, continuando a battere i propri caschetti sull’asfalto. Quando, in serata, arriva il secco no dell’azienda, i rappresentanti sindacali lo comunicano ai lavoratori a modo loro: “Cappellacci lo hanno mandato a fare in quel posto. Dobbiamo tornare a casa e riorganizzarci per cercare di rallentare la decisione di Alcoa di spegnere le celle”.
L’azienda in effetti, confermano fonti presenti all’incontro “è rimasta ferma sulle sue posizioni, mostrando una certa rigidità”. I 56 lavoratori di Alcoa, però, non mollano: “Domani alle 14 – comunicano i rappresentanti sindacali prima di salire sul pullman – ci sarà un’assemblea straordinaria. Quindi, una volta scesi dalla nave, ci si va a fare una doccia e si torna in impianto”. Il 5 settembre, giorno in cui è previsto un nuovo incontro al ministero, torneranno a Roma. “Qualcosa faremo, qualcosa ci inventeremo – spiegano – le cose fatte a sorpresa riescono meglio”.
© Copyright LaPresse - Riproduzione Riservata