Ankara (Turchia), 19 gen. (LaPresse/AP) – Oltre 10mila persone si sono riunite stamattina a Istanbul, in Turchia, e hanno marciato in silenzio per ricordare il quinto anniversario dell’omicidio del giornalista di origini armene Hrant Dink, assassinato il 19 gennaio del 2007 fuori dalla sede del giornale Agos, che dirigeva. Gli attivisti per i diritti umani hanno deposto garofani rossi sul luogo in cui Dink è stato ucciso e molti portavano cartelli con la scritta ‘Siamo tutti Hrant, siamo tutti armeni’.
I manifestanti chiedono giustizia per il giornalista, dopo che il processo per il suo omicidio si è concluso martedì con una sola condanna, di un mandante, e 18 assoluzioni. L’esecutore materiale, il giovane Ogun Samast, era stato condannato a 23 anni di prigione per omicidio premeditato lo scorso luglio. Il nodo centrale è che, secondo familiari e sostenitori, il processo non è riuscito a portare alla luce presunte collusioni e negligenza da parte di funzionari dello Stato, che sapevano del piano dell’omicidio ma non avrebbero fatto nulla per impedirlo. Lo stesso mandante condannato all’ergastolo, inoltre, l’ultranazionalista turco Yasin Hayal, è stato assolto come gli altri dall’accusa di aver agito su ordine di un’organizzazione terroristica.
Hrant Dink, attivista per i diritti umani oltre che giornalista, fu assassinato alla piena luce del giorno davanti all’ufficio del settimanale Agos. Il motivo dell’omicidio è da ricercarsi nelle idee di Dink. Egli era infatti inviso ai nazionalisti perché parlava apertamente di genocidio armeno descrivendo le uccisioni di massa degli armeni da parte dei turchi sotto l’Impero Ottomano. Il suo assassinio e le ombre sul processo sono infatti un’ulteriore tessera da inserire nel mosaico dei complessi rapporti che la Turchia ha con la nutrita comunità armena cristiana, che conta quasi 60mila persone in un Paese di oltre 70 milioni di abitanti a prevalenza musulmana. La Turchia si rifiuta di riconoscere come genocidio le uccisioni di massa del 1915, in cui furono uccise almeno un milione e mezzo di persone. Il mese scorso proprio il genocidio armeno fu alla causa delle tensioni diplomatiche con Parigi, quando l’Assemblea nazionale francese votò a favore del disegno di legge che rende reato la negazione del genocidio armeno, equiparandola alla negazione dell’Olocausto.
Mesi fa era emerso che le autorità sapevano del piano dell’omicidio, ma non erano intervenute. Il processo non è riuscito a portare luce nel buio di queste presunte connessioni e oggi, nel quinto anniversario dell’omicidio, insoddisfazione è stata espressa oltre che dagli attivisti anche dalle autorità turche. “La conclusione del caso Dink in modo trasparente e semplicemente in linea con le nostre leggi è per noi un test importante”, ha detto il presidente Abdullah Gul lasciando intravedere che potrebbe esserci un approfondimento dell’indagine sul caso Dink.
Persino il giudice turco Rustem Eryilmaz, che presiedeva il gruppo che ha emesso le sentenze di martedì, si è detto insoddisfatto. In un’intervista pubblicata oggi sul quotidiano turco Vatan, Eryilmaz ha riconosciuto che la Corte ha fallito non riuscendo a rivelare presunte negligenze e collusione di funzionari dello Stato con i responsabili. I giudici, a suo parere, si sono sentiti pressati a dover emettere un verdetto visto che il processo andava avanti da quattro anni e mezzo e non hanno avuto il tempo di esaminare migliaia di intercettazioni telefoniche registrate sul luogo del delitto il giorno dell’omicidio. “Non abbiamo potuto portare luce su quanto è avvenuto dietro le quinte, che è quello che ognuno vorrebbe sapere”, ha riconosciuto Eryilmaz.
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