di Filippo di Giacomo

Città del Vaticano, 6 set. (LaPresse) – Si scrive “preghiera”, si legge “multilateralismo”. Tradotto dal vaticanese in linguaggio moderno, la giornata di digiuno e preghiera che Papa Francesco ha indetto per domani, sabato 7 settembre, non è solo un’iniziativa devota. L’orizzonte della diplomazia vaticana travalica ormai da anni gli spazi della piccola politica italiana, del mediocre dibattito sulla laicità sclerotizzata e sclerotizzante degli ultimi giacobini al governo nell’Europa continentale e nei salotti di Bruxelles. E si disinteressa ormai, soprattutto dopo l’elezione di Papa Francesco, anche delle altre piccolezze laicistiche enfatizzate dai media occidentali. L’accusa che il presidente Barak Obama, appena messo piede sul suolo russo, ha lanciato alle Nazioni unite è sintomatico di quanto più grande sia la posta messa in gioco dall’eventuale rappresaglia americana in Siria.

Per il leader statunitense, “l’Onu è in ostaggio della Russia”. In Vaticano, queste parole sono suonate ampiamente stonate. L’Onu, dalla sua creazione, è ostaggio di un Consiglio di Sicurezza dove le cinque potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale continuano ad avere il diritto di veto: cinque Stati su 193 Paesi membri. Centottanta dei Paesi membri Onu hanno con la Santa Sede piena rappresentanza diplomatica. Alla morte di Giovanni XXIII, agli inizi degli anni Sessanta, i paesi che intrattenevano rapporti diplomatici con il Vaticano erano 40, soprattutto europei e latinoamericani.

Diventano 70 alla morte di Paolo VI, nel 1978. Il boom avviene tra gli anni Novanta e Duemila, con Giovanni Paolo II: al momento della sua morte nel 2005, il mondo era rappresentato nella Città Leonina da 186 Paesi, diventati 180negli anni di Benedetto XVI. Altri sei Paesi (Brunei, Comore, Laos, Mauritania, Birmania e Somalia), pur non avendo rango di ambasciata, intrattengono formali relazioni diplomatiche. A queste vanno aggiunte le rappresentanze che il Vaticano intrattiene con una pluralità di altre organizzazioni sovranazionali, compresa la Lega Araba.

La pretesa dell’amministrazione Usa di poter agire in Siria senza mandato dell’Onu non è una novità di questi giorni. E se si annotano le date del vorticoso moltiplicarsi delle rappresentanze diplomatiche tra Santa Sede e il resto del mondo, non si fa alcuna fatica a notare che esse coincidono con le innumerevoli crisi che il multilateralismo ha avuto, dopo la caduta del muro di Berlino, anche a causa delle ormai evidenti opacità della politica estera degli Stati Uniti. E sono date utili anche per ricordare il groviglio di sbagli e di interessi che hanno gettato nel baratro intere regioni dello scacchiere mondiale. Pregare con Papa Francesco in questa sua prima azione da leader globale significa anche non nascondersi più (come continua ancora a fare la politica italiana) dietro l’efficacia dei bombardieri nell’esportare la democrazia e la pace.

Nell’avventura senza ritorno che gli scontri degli ultimi cinquant’anni hanno innescato, progressivamente, in tutto il Medio Oriente e in molti altri paesi del mondo, le uniche speranze sui diritti umani e la pace interreligiosa provengono dalle “buone volontà” presenti in tutte le società. Nel chiamarli a raccolta, il Vaticano chiede una riforma dell’Onu e del Consiglio di Sicurezza. Di preghiera in preghiera, prima o poi qualcuno si accorgerà che quando il Papa parla, lo fa a nome di 180 paesi del mondo. Che a Roma possono parlare liberamente, a New York invece possono solo battere le mani. A comando.

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