Gaza (Striscia di Gaza), 21 lug. (LaPresse/AP) – Nel cuore della città di Gaza, mentre gli abitanti sono sotto il fuoco dell’artiglieria e dell’aviazione israeliana, i feriti e i loro familiari arrivano continuamente all’ospedale Shifa. Maggior ospedale locale con 600 posti letto, ne ha soltanto 11 nel reparto di pronto soccorso e conta sei sale operatorie. Tra i continui blackout della corrente elettrica e le urla dei feriti, i medici dell’ospedale sono costretti a improvvisare. “Se siamo nel mezzo di un intervento e le luci si spengono, cosa fanno i palestinesi? Prendono i loro telefoni cellulari e usano la luce dello schermo per illuminare”, racconta Mads Gilbert, medico norvegese che da 17 anni lavora come volontario all’ospedale.
MATERASSI PER TERRA NEI CORRIDOI. I feriti degli attacchi aerei israeliani arrivano a ondate e sono in gran parte quelli più gravi, mentre gli altri sono curati anche altrove. Tra le ondate più numerose arrivate all’ospedale c’è stata quella della mattina di ieri, dopo la notte di pesanti attacchi che ha devastato il quartiere Shujaiyya a Gaza. L’affollamento, la scarsità di spazio e mezzi, hanno fatto sì che alcuni feriti siano stati curati su materassi sul pavimento dei corridoi, tra cui un soccorritore ferito a un piede e un bambino colpito da schegge di un proiettile. Al loro fianco, un piccolo senza vita veniva pianto da una donna e dal padre. Un’altra ragazzina aspettava cure, con un braccio rotto e insanguinato. Intanto, lunghe file di feriti si erano formate davanti alle sale per i raggi X.
“DOBBIAMO SCEGLIERE CHI CURARE, QUALCUNO MUORE MENTRE OPERIAMO UN ALTRO”. Difficile, per i medici, decidere chi curare prima. Il dottor Jihad Juwaidi spiega che le sei sale operatorie si riempiono velocemente e che anche il più grave dei feriti è costretto ad aspettare per essere operato. Scegliere chi curare prima è devastante, racconta il medico Allam Nayef, che lavora in terapia intensiva all’ospedale. “A volte devi selezionare chi abbia la miglior possibilità di sopravvivere. In quel caos, puoi prendere la decisione sbagliata, pensando che quel paziente possa aspettare e poi non ritrovandolo più quando l’operazione sarà finita”, racconta.
MANCA TUTTO, DALLE GARZE AGLI EQUIPAGGIAMENTI. Le condizioni nell’ospedale sono estremamente complicate. L’energia elettrica manca di continuo perché i vecchi generatori cedono a causa dei blackout quotidiani, con cui gli abitanti di Gaza convivono da anni. Molti farmaci e materiali scarseggiano, dalle garze all’adrenalina. Mancano anche parti di ricambio per gli equipaggiamenti usurati, come i carrelli e le barelle. Solo tre dei quattro letti da rianimazione Icu hanno ventilatori. Uno si è rotto tempo fa ma non può essere riparato.
TERZA GUERRA IN CINQUE ANNI, ALL’OSPEDALE C’E’ ORGANIZZAZIONE. Anche nelle ore di maggior affluenza, però, nell’ospedale Shifa c’è un ordine. Quelle in corso sono le terze ostilità significative tra Israle e Hamas in cinque anni. Tutti all’ospedale Shifa conoscono il proprio ruolo: medici, infermieri o poliziotti di Hamas. Così come nelle violenze del 2012, i giornalisti e le troupe tv si sono piazzate all’esterno dell’ingresso principale.
LUOGO SICURO, MA GIORNALISTI COL GIUBBETTO. Il luogo è considerato relativamente sicuro, un obiettivo improbabile per Israele. Nonostante questo, diversi corrispondenti indossano giubbotti anti proiettile durante i servizi tv. I leader politici di Hamas compaiono a volte per parlare con i reporter, mantenendo un basso profilo ma sfruttando la presenza dei media in un luogo abbastanza sicuro.
“SE LAVORASSIMO PER LO STIPENDIO NON SAREMMO QUI”. I problemi dell’ospedale Shifa sono iniziati molto prima di queste ostilità. Hanno radici datate nel conflitto israelo-palestinese e più di recente nelle tensioni tra Hamas e il presidente Mahmoud Abbas. I problemi si riflettono anche sui dipendenti, in parte assunti prima dell’arrivo di Hamas nel 2007, in parte dopo. I primi continuano a essere pagati dall’Autorità nazionale palestinese, i secondi non ricevono il salario da mesi a causa della grave crisi economica del gruppo, risultato del blocco imposto dall’Egitto. Le ostilità li hanno avvicinati. “Se lavorassimo solo per lo stipendio, nessuno di noi sarebbe qui oggi”, dice Nayef, che non viene pagato da mesi. “Siamo qui a lavorare – continua – perché questi pazienti sono le nostre famiglie, i nostri amici, i nostri vicini di casa”.
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