Kabul (Afghanistan), 29 lug. (LaPresse) – Il suo vero nome, quello col quale fu registrato all’anagrafe, è Mohammed Omar Mujahid. Non si conosce la data, ma si sa che il mullah Omar, la cui uccisione nel 2013 è stata confermata solo oggi, è nato in un villaggio vicino a Kandahar, che ha frequentato scuole coraniche e ha partecipato alla guerra contro le truppe sovietiche. Proprio durante quel conflitto è stato ferito quattro volte e ha perso un occhio.

Nelle poche foto presenti in rete, infatti, la menomazione subìta è chiaramente visibile. L’unica biografia ufficiale del capo spirituale dei talebani è apparsa lo scorso mese di aprile sulla pagina web degli studenti coranici. E’ stata pubblicata per celebrare il diciannovesimo anniversario della sua nomina come ‘Amir-ul Momineen’, cioè comandante dei credenti, che lo trasformò nella guida della jihad e in capo dell’Afghanistan, quando tra il 1996 e 2001 il Paese diventò un emirato islamico governato dai talebani.

Gli insorti hanno motivato la pubblicazione con “la domanda urgente di molti colleghi, specialmente scrittori e investigatori”, e per “evitare falsa propaganda”. E’ stato descritto come un soldato “valoroso”, “efficiente nelle tattiche militari” e con una predilezione per i lanciarazzi RPG-7.

Le notizie sui suoi presunti arresti, ferimenti e morti mai confermate si susseguono da anni. L’unica cosa certa è che di lui si sono perse le tracce dal 2001, all’indomani degli attentati dell’11 Settembre, dopo i raid americani sul Paese.

“La sofferenza e l’oppressione” delle persone per mano dei signori della guerra dopo l’espulsione dei sovietici, si legge ancora nel testo, hanno portato il mullah Omar a fondare i talebani nel 1994 per “liberare il Paese” e “lottare contro corruzione e anarchia”. La biografia lo descrive ancora come un leader dalla “personalità carismatica e unica”, che “non ha accumulato ricchezze, non vive nel lusso e non ha conti bancari all’estero”. Rivista anche la versione che lo voleva sacerdote poco istruito e senza dinastia tribale. Sarebbe invece nato in una “famiglia spirituale e istruita” del clan Tomzi della tribù Hotak, che avrebbe dato i natali a “eminenti uomini dello Stato islamico”.

Secondo l’analista politico Matiullah Kharotai, la pubblicazione di quella biografia doveva servire a dimostrare agli afghani, e alla comunità internazionale, che il mullah Omar fosse vivo e continuasse a essere leader indiscusso dei talebani, anche in vista dei negoziati di pace con il governo. E anche un tentativo per convincere i comandanti che il Mullah fosse ancora alla guida del movimento. “Un modo per unire il gruppo, che è sull’orlo del collasso, nel pieno della sfiducia dei suoi comandanti. Non ci sono notizie di Omar da un decennio”, aveva detto Kharotai all’agenzia Efe.

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