Lo scrittore americano ospite del Festivaletteratura di Mantova
E' uno di quei casi in cui la scena viene rubata da chi, sullo sfondo senza dire una battuta, aspetta, osserva e non giudica. L'amore di Jay McInerney per New York è così viscerale che non poteva essere altrimenti. Come già successo nei capitoli precedenti – 'Si spengono le luci' e 'Good Life' – anche nel romanzo che chiude la sua trilogia, 'La luce dei giorni' (Bompiani), l'enfant prodige della letteratura statunitense oggi 61enne celebra quella che per lui resta la "città più bella d'America e forse del mondo". Nonostante le crisi economiche e morali. "Quando arrivai a New York nei primi anni '80 – ricorda McInerney al Festivaletteratura di Mantova – la città era sporca, pericolosa e piena di cocaina, ma era anche uno sballo, feconda d'arte, musica e letteratura. Ora è più sicura e ricca, ma non sono certo che sia ancora così interessante".
Anche in questo romanzo, gli occhi che guardano e raccontano New York sono quelli di Russell e Corrine, la coppia ormai 50enne che non molla il loft di Tribeca e sfida la tenuta degli affetti alternando tradimenti a ripensamenti. Gli anni dell'azione sono a cavallo tra il 2006, segnato dallo scoppio della crisi finanziaria, e il 2008, quello del primo presidente afroamericano alla Casa Bianca. "Era un momento molto difficile, pieno di paure, ma anche di grandi speranze perché moltissima gente pensava che Obama avrebbe portato una nuova epoca di armonia e ricchezza. Adesso però mi rendo conto che nessuno sarebbe stato in grado di realizzare i nostri sogni e nemmeno Obama l'ha fatto", spiega McInerney che ora spera in Hillary Clinton: "Sono un suo sostenitore, mi auguro sia in grado di fare meglio del presidente uscente perché è politicamente molto realista, con i piedi per terra. Obama ha avuto dei limiti, non è stato in grado di trattare con il Congresso e parlare ai Repubblicani". E se invece vince Trump? "Vengo a vivere in Italia", scherza McInerney: "È anche lui di New York, lo conosciamo bene, è un clown che ha fatto leva sulle paure della gente".
Nei giorni del 15esimo anniversario dell'11 settembre, lo scrittore americano riflette sulla memoria del dolore. "È sorprendente vedere quanta gente abbia dimenticato questa tragedia, compresi molti cittadini di New York. Chi poi non era lì ha percepito quanto successo come qualcosa di molto distante dalla sua vita. Ma per chi c'era, come me che, per esempio, ho perso un amico, l'attacco alle Torri resta una grande ferita; quando vediamo un aereo che vola basso su Manhattan o sentiamo un particolare rumore, l'11 settembre del 2001 ci sembra ieri".
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