Nel 1989 l'ultimo governo eletto del Paese. Due anni fa la cacciata di Omar al-Bashir

L’esercito ha preso il potere in Sudan sciogliendo il governo di transizione poche ore dopo che le truppe hanno arrestato il primo ministro in carica Abdalla Hamdok e altri funzionari governativi. Il golpe arriva più di due anni dopo che le massicce proteste popolari portarono nel 2019 alla cacciata dell’ex presidente Omar al-Bashir e poche settimane prima che i militari avrebbero dovuto consegnare ai civili la leadership del Consiglio Sovrano (composto da cinque civili e altrettanti militari, è l’organo che guida il Paese dall’agosto 2019).

Quello del 25 ottobre è l’ultimo di una serie di tentativi di colpi di Stato, falliti o meno, che hanno segnato la storia del Sudan. Un tentativo di golpe c’era già stato il 21 settembre e, da allora, le tensioni tra leader militari e civili sono aumentate. Dal 16 ottobre centinaia di manifestanti hanno partecipato a sit-in alle porte del palazzo presidenziale per chiedere un ‘governo militare’.

In precedenza, nel 2020, il primo ministro Abdalla Hamdok è sopravvissuto a un tentativo di assassinio mirato al suo convoglio mentre si dirigeva a Khartoum.

Il Sudan ha subito diversi rovesciamenti di governo da quando ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito e dall’Egitto nel 1956. Quello del 1989, che ha rimosso l’ultimo governo eletto del Paese, fece salire al potere Al-Bashir.

Un successivo colpo di Stato nel 2019 portò alla cacciata dello stesso al-Bashir dopo mesi di massicce proteste da parte della popolazione. Le manifestazioni scoppiarono per la prima volta il 19 dicembre a seguito della decisione di triplicare il prezzo del pane e da allora si trasformarono in mobilitazione nazionale contro Al-Bashir, per chiederne le dimissioni. Dalla caduta del regime il Sudan ha iniziato una transizione verso la democrazia. In base a un accordo dell’agosto 2019, l’esercito condivide il potere con funzionari nominati da gruppi politici civili in un organo di governo noto come Consiglio Sovrano, destinato a guidare il Paese alle elezioni che, secondo gli accordi, si sarebbero dovute tenere entro la fine del 2023.

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