Le parole di Maia (nome di fantasia), che ha lasciato la capitale per rifugiarsi in un villaggio di montagna: "Tregua? Non c'è nessuna speranza"

Beirut, venerdì pomeriggio: la capitale del Libano sta per essere di nuovo bombardata da Israele. Nel mirino il sud della città, quartier generale degli Hezbollah e del suo leader Nasrallah. Missione compiuta per gli israeliani con l’uccisione del capo, annunciata sabato. Ma è anche la popolazione a pagare un prezzo altissimo. Maia, nome di fantasia, ci risponde al telefono poco prima dell’attacco, proprio mentre Netanyahu tiene il suo discorso all’Onu. “Una palude antisemita”, definisce il palazzo di vetro il premier israeliano, allontanando anche la possibilità di una tregua di 21 giorni. Maia alla tregua non ci ha mai creduto e come molti suoi fortunati connazionali ha lasciato proprio in questi giorni Beirut per rifugiarsi nella sua casa in montagna, un villaggio a 50 km dalla capitale. Ha circa 60 anni e parla un italiano fluente, avendo vissuto a lungo in Toscana frequentando il mondo dell’arte. Parla tante lingue, ma l’Italia è ancora nel suo cuore. “Non si sente il mio accento toscano?“, prova a stemperare la tensione. Ma nelle sue parole traspare la paura per una situazione che il popolo libanese in epoca recente ha già vissuto, anche se in modo totalmente diverso. “Nel 2000 gli israeliani uscirono dal Libano, ma Hezbollah era già diventato abbastanza forte perché il movimento si era organizzato per rispondere ai loro attacchi. È in opposizione alla loro occupazione del Libano che questo è avvenuto. Nel 2006 ci fu uno scontro alla frontiera tra israeliani e Hezbollah”, dice ricordando la precedente operazione militare su vasta scala di Israele, durata 35 giorni. “Quella volta Israele mise fuori uso tutte le infrastrutture: ponti, strade, aeroporto. Dicevano che tutto il Paese supportava Hezbollah e che tutti avremmo dovuto soffrire per questo. Ma è colpa loro se Hezbollah è diventata così forte“.

La paura dell’attacco via terra

Oggi il temuto attacco via terra da parte di Israele non è ancora avvenuto, ma è un fantasma che aleggia sul Libano così come l’incubo delle bombe che arrivano dal cielo. Maia vive nella parte nord di Beirut, più ricca e sviluppata rispetto a quella a sud. “La mia casa è vicino all’università americana. Qui sorgono molte università e c’è l’ospedale dove dal sud sono arrivate persone ferite“, racconta nella videochiamata con LaPresse, “la paura è totale, assistiamo a una propaganda di guerra per demoralizzare la gente e forse per fare pressione sulla popolazione libanese. È già quasi un anno che tutto questo è cominciato e sin dal primo giorno Israele ha detto: ora tocca di nuovo al Libano“. E così è stato: “Chi poteva andar via, avendo i mezzi e i soldi, lo ha fatto. Ma serve un visto per lasciare il Paese. Chi ha un altro passaporto può andar via subito. Altri, invece, dal sud sono arrivati qui. Le persone che sono ancora qua, scegliendo di non andare via anni fa, hanno già sopportato queste situazioni altre volte. Chi rimane qui sa già che questo può sempre succedere“. Una scuola ha aperto le sue porte per accogliere i feriti: “Persone che hanno visto le loro case e i loro villaggi distrutti. C’è un’atmosfera di grande paura, più dell’altra volta e questo mi ha molto colpito. C’è più nervosismo, più tensione. Si sente sempre la gente gridare anche la notte, forse sono i più giovani che stanno andando fuori di testa”.

“L’ospedale è diventato uno scenario di guerra”

“Le infrastrutture non sono ancora state distrutte come l’altra volta ma – sottolinea Maia – non c’è nulla di normale. La scorsa settimana si sentivano le esplosioni causate da cercapersone e walkie talkie. Sono arrivate persone con le ambulanze, tutto il popolo è rimasto traumatizzato nel vedere la gente perdere mani e occhi“. Maia in ospedale c’è stata da poco per curarsi da un infortunio: “L’ospedale è diventato uno scenario di guerra. Un medico, che non voleva parlare perché era ancora traumatizzato, mi ha riferito di come un suo collega abbia dovuto decidere di togliere così tanti occhi, un trauma terribile. A Beirut non c’è ancora un problema di cibo. Ma il trauma di questa forma di guerra è l’anticipazione di quello che vogliono fare. Come nel 2006, traumi già vissuti in passato e che ora tornano”.

“È Hezbollah a determinare il percorso del Paese”

E la popolazione? Cosa pensa di Hezbollah? “Le persone più politicizzate, della sinistra più estrema, sono pro Hezbollah perché per loro ci hanno difeso dagli israeliani. Tutta la borghesia sarebbe naturalmente critica, ma in Libano ormai è l’agenda di Hezbollah a determinare il percorso del Paese. È un Paese che si è fermato: non avanza, non migliora, non c’è nessuna risoluzione politica all’ombra della politica sul Medioriente. Hezbollah è responsabile per la stagnazione del Libano insieme agli altri politici che non si mettono mai d’accordo, non è un sentimento ma un fatto. La maggior parte della gente non vive di idee politiche ma di pane, solo chi è altamente politicizzato ha simpatia per organizzazioni politiche“.

Flebili le speranze di tregua

“La popolazione che soffre – racconta – è quella più moderna e accademica che vuole vivere e lavorare, vuole acqua ed elettricità, vuole un governo responsabile. Insomma, vuole una vita normale. Poi, a parte gli estremisti di destra, c’è grande simpatia per il popolo palestinese e per la sua sofferenza da parte di tutta la popolazione libanese. Anche da parte di chi ha sofferto, gente come me. Perché i palestinesi pur non avendo colpe fanno parte del problema del Libano. Sono venuti come profughi in Libano, è stato loro permesso di portare armi e hanno fatto la guerra con Israele dal Libano. È un fatto storico che i problemi in Libano, complici le divisioni religiosi dei libanesi, sono iniziati così. Molti miei amici in Italia, in Francia o in America sono solidali con i palestinesi, ma si vede che lì questo sentimento non prevale nella maggior parte della popolazione. Qui invece sì, è diverso il senso dell’ingiustizia”. La speranza che si possa materializzare quella tregua proposta da Stati Uniti, Ue e alcuni Paesi arabi sembra più flebile: “Quando mi sono chiesta ‘chissà se ora non ci sarà più pressione sugli israeliani da parte dell’Onu’ mi hanno preso in giro. Non c’è nessuna speranza. Se non distruggono il Libano ora è solo per calcolo proprio, non per umanità o compromesso. Siamo minacciati, non dormiamo tranquilli come le persone che dicono: tanto succede in Medioriente. Ciò che succede qua lo vediamo con altri occhi, stiamo guardando l’inferno“.

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