La candidata dem punta a diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti d'America

“A new way forward”, “una nuova strada in avanti“, verso il futuro. E “we are not going back”, “non torneremo indietro“. Questi, tra i tanti che sono stati coniati in questi mesi, gli slogan che Kamala Harris ha più utilizzato per identificare la sua campagna agli occhi degli elettori e segnare la differenza non solo politica, ma quasi antropologica col rivale Donald Trump. Una ‘nuova strada in avanti’ che, col procedere della campagna, è stata progressivamente arricchita delle proposte politiche messe a punto dal team della vicepresidente, dopo che la tardiva uscita dalla corsa elettorale di Joe Biden non aveva consentito a lei o ad altri potenziali candidati democratici di esprimere per tempo una piattaforma coerente e completa. Con l’esaurirsi della ‘luna di miele’ successiva all’annuncio della sua candidatura (è del 21 luglio l’addio di Biden e il suo endorsement per la sua vice) e dell’entusiasmo suscitato tra gli elettori democratici dalla convention di agosto a Chicago, per Harris è iniziato il compito più difficile: distanziarsi da un’Amministrazione della quale è tutt’ora la numero due e che viene percepita negativamente dalla maggioranza dell’elettorato – l’indice di approvazione di Biden è al 39%.

Kamala Harris e la difficile eredità di Biden

Più timida all’inizio, più decisa in queste ultime settimane, Harris – 60 anni compiuti il 20 ottobre, figlia di padre giamaicano e madre indiana, ex prima procuratrice generale donna dello stato della California e in corsa per diventare la prima presidente donna degli Stati Uniti – è stata più volte costretta a rimarcare che la sua sarà una “Presidenza diversa”, che segnerà una discontinuità con il suo anziano predecessore. Ne sono sorti momenti di contrasto con lo staff della Casa Bianca rimasto fedele a Biden. Non è un mistero – sono stati pubblicati diversi retroscena – che la campagna di Harris non gradisca gli interventi di Biden negli Stati-chiave che determineranno l’esito del voto del 5 novembre. Un presidente impopolare rischia di alienare alla sua vice quei voti, anche poche migliaia, che potrebbero fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Così come è stata accolta malissimo la recente gaffe del presidente sugli elettori “spazzatura” di Trump, che ha finito per oscurare il successo del grande comizio organizzato dalla campagna Harris all’Ellipse di Washington, al quale hanno preso parte oltre 50mila persone. Lo stesso Biden e la Casa Bianca hanno rettificato, ma ormai il danno era fatto. E il presidente non ci pensa proprio a farsi da parte, vista la sua ripetuta presenza in Pennsylvania (il più determinante tra gli ‘swing states’) nel weekend prima dell’Election Day. È sui temi politici, quindi, che Harris deve distanziarsi non solo da Trump, ma anche dal suo presidente, per sperare di dare un’anima e un corpo a quello che altrimenti rimarrebbe solo uno slogan.

Kamala Harris e le sue posizioni su aborto e immigrazione

L’aborto potrebbe essere per Harris un asset politico decisivo rispetto a Trump, come dimostra il sostegno raccolto tra l’elettorato femminile (oltre il 55% secondo i sondaggi). Subito dopo la cancellazione nel 2022 della sentenza ‘Roe v. Wade’ da parte della Corte Suprema, la vicepresidente si è spesa molto per denunciare la nuova realtà, che ha consegnato agli Stati l’autorità di legiferare in materia, con conseguenti divieti, in alcuni casi quasi totali, negli Stati repubblicani. In campagna, Harris ha insistito sulla necessità di approvare una legge federale che ripristini il diritto all’aborto a livello nazionale. Ma per mantenere la sua promessa dovrebbe poter contare su un Congresso controllato da Democratici in entrambi i suoi rami. Una prospettiva che non sembra realizzabile col voto del 5 novembre, in cui si vota anche il rinnovo della Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato.

Uno dei punti deboli di Harris è invece l’immigrazione, un altro tra i temi più sentiti dall’elettorato. Da candidata alle primarie democratiche del 2020, Harris aveva assunto un atteggiamento molto ‘liberal’ sull’immigrazione illegale dal confine col Messico, arrivando a proporne la depenalizzazione. Da vicepresidente, come il resto dell’Amministrazione, è apparsa inerte di fronte al fenomeno, che secondo i dati ufficiali ha portato a oltre 7,2 milioni di ingressi illegali negli Usa a partire dal gennaio 2021, da quando cioè Biden ha sostanzialmente cancellato o smontato gran parte dei provvedimenti messi in atto precedentemente da Trump. Inevitabile il ‘riaggiustamento’ in campagna elettorale, che ha portato Harris a promettere ripetutamente “più sicurezza al confine’, senza però spingersi ad abbracciare misure a effetto, come il famoso ‘muro’ di Trump.

Harris, la politica economica e quella estera

In tema di economia, la proposta di Harris si è concentrata soprattutto sulla classe media, in parte in continuità con Biden. Harris si è detta a favore delle ingenti spese finora varate dall’Amministrazione in tema di infrastrutture ed energie rinnovabili. Suo punto debole è l’inflazione, con l’esplosione dei prezzi avvenuta a partire dalla pandemia e, successivamente, con l’invasione russa dell’Ucraina. Sebbene l’inflazione sia sostanzialmente tornata sotto controllo, verso il target del 2% fissato dalla Federal Reserve, i prezzi non potranno mai tornare quelli di quattro anni fa. La percezione per gran parte degli americani è che il costo della vita, soprattuto delle abitazioni, dei generi alimentari e dei carburanti, sia insostenibile, nonostante i salari siano cresciuti e la disoccupazione sia ai minimi storici, poco al di sopra del 4%. Di qui, la proposta di Harris di combattere le speculazioni sui prezzi, di creare incentivi alla costruzione di nuovi alloggi e di espandere le detrazioni fiscali per le famiglie a medio e basso reddito, finanziando il costo di queste politiche con un aumento delle tasse a carico delle grandi aziende e degli americani più ricchi.

In pressoché totale continuità con l’Amministrazione uscente è la politica estera proposta da Harris, che rimane a favore di un ruolo attivo degli Stati Uniti sullo scenario globale, con il consolidamento delle alleanze militari come la Nato. Sull’Ucraina, la candidata democratica è favorevole al mantenimento degli aiuti militari a Kiev. Pochi, invece, i dettagli sulla politica che Harris intenderebbe perseguire con la Cina. Pur denunciando le pratiche scorrette di Pechino in materia di commercio e l’assertività cinese nei confronti di Taiwan, Harris sembra favorevole al mantenimento del dialogo con la Repubblica popolare, vista anche la dipendenza degli Usa dalla manifattura cinese. Sul conflitto a Gaza, Harris ha più volte ribadito il sostegno Usa alla sicurezza di Israele, compreso naturalmente l’invio o la vendita di armi allo Stato ebraico. Rispetto a Biden, la vicepresidente ha a volte usato toni più decisi per chiedere il cessate il fuoco a Gaza e nel denunciare la situazione umanitaria nella Striscia. Ma anche il suo sostegno alla soluzione dei due Stati non l’ha però messa al riparo dalle contestazioni dei gruppi pro palestinesi e pro Gaza e rischia di alienarle il voto di almeno una parte della comunità arabo-americana che, soprattutto in Michigan, altro Stato-chiave, ha un peso elettorale rilevante. 

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