Donald Trump non ha avuto bisogno di coniare nuovi slogan per la sua terza campagna presidenziale. Il tycoon è ripartito dal suo ‘Maga’, Make America Great Again, per rilanciare lo stesso messaggio proposto nel 2016 e ancora nel 2020. Quel mix di iperpopulismo interno e di isolazionismo muscolare verso il resto del mondo che sono ormai da otto anni il suo marchio di fabbrica.
Sconfitto quattro anni fa da Joe Biden, macchiato dall’onta della tentata insurrezione e dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, l’ex presidente appariva come un ‘cadavere politico’. A questo si aggiungevano i bombardamenti giudiziari giunti da più parti per i tentativi di sovvertire l’esito delle elezioni; i documenti sequestrati a Mar-a-Lago; la condanna per violenza sessuale ai danni della scrittrice E. Jean Carroll; l’altra condanna per i pagamenti in nero alla porno attrice Stormy Daniels; e i conti gonfiati della Trump Organization ai danni di banche e assicurazioni. Trump usciva in apparenza ulteriormente indebolito anche dal voto di midterm del 2022, dove molti ‘suoi’ candidati erano usciti sconfitti dal voto.
Il tycoon ha saputo ‘riprendersi’ il Partito repubblicano, fino ad allora ancora in grado, nel suo establishment, di opporgli una qualche resistenza, con la volata trionfale delle primarie, dove né la sfida lanciata da destra, con Ron DeSantis, né quella dal centro, con Nikki Haley, lo hanno veramente impensierito. Il Gop è ora forgiato a immagine e somiglianza di Trump e perfino le voci dissonanti più autorevoli, come quella del leader repubblicano del Senato, Mitch McConnell, sono state messe a tacere.
L’ex presidente ha avuto gioco facile nella prima parte della campagna, riproponendo al suo popolo ‘Maga’ la retorica dell’elezione ‘rubata’ del 2020 e puntando soprattutto sugli attacchi personali a Joe Biden, l’anziano ‘Sleepy Joe’ sbeffeggiato per i suoi 81 anni e i continui inciampi, fisici e verbali. Il dibattito televisivo di giugno col suo rivale democratico sembrava avere consegnato a Trump le chiavi della Casa Bianca con mesi di anticipo. I sondaggi per il presidente uscente, ancora di più dopo la disastrosa performance televisiva, erano impietosi, mentre invece gonfiavano le vele della campagna del tycoon. Un ‘aiuto’ Trump lo ha avuto anche dal primo fallito tentativo di assassinio, quello del 13 luglio a Butler, in Pennsylvania, dal quale l’ex presidente era sembrato voler ripartire proponendo un’immagine di sé stesso più moderata, da ‘unificatore’ della nazione. Un Trump che è durato poco e che già a partire dalla convention repubblicana di Milwaukee è tornato ad essere il Trump consueto, incurante delle convenzioni e capace con assoluta disinvoltura di piegare la realtà e i fatti al suo disegno politico.
La discesa in campo a luglio di Kamala Harris ha inizialmente disorientato gli strateghi trumpiani, costretti a confrontarsi con una candidata più giovane (60 anni appena compiuti), nei confronti della quale il 78enne Trump appariva immediatamente come il candidato ‘vecchio’, nel fisico e nella proposta politica. Nelle settimane e nei mesi successivi, Trump ha saputo recuperare il gap che veniva fotografato nei sondaggi di allora. E lo ha fatto spesso ignorando i consigli dei suoi strateghi, che lo spingevano a moderare gli attacchi personali e la consueta retorica incendiaria, per concentrarsi sulle proposte politiche. Sondaggi alla mano, sembra avere avuto ragione lui nel puntare più che sulla politica sulla sistematica demonizzazione dell’avversaria. Tanti gli epiteti rivolti a Harris – stupida, incapace, quoziente di intelligenza basso, incompetente – con gravi scivoloni anche sul tema della razza – “E’ nera o indiana?” – che hanno indignato metà dell’America, ma lasciato indifferente (se non galvanizzato) l’altra metà.
Una strategia d’attacco che ha messo in secondo piano le proposte politiche trumpiane, riassumibili nella frase con la quale il tycoon inizia quasi tutti i suoi comizi: “State meglio ora o quattro anni fa?”. Ecco allora la promessa di “mettere fine all’inflazione” e “rendere l’America di nuovo ‘affordable'”, accessibile al portafoglio di tutti. Poi, la minaccia di scatenare una guerra dei dazi con Cina e Unione europea, se non accetteranno quote maggiori di export Made in Usa. Sull’immigrazione illegale, punto di forza di Trump (e punto debole di Harris), la promessa di leggi e provvedimenti draconiani e della “più grande deportazione di massa della storia”.
Sull’aborto, il ‘no’ a un divieto a livello federale, lasciando la legislazione in materia ai singoli Stati, come avviene ormai da oltre due anni, dopo la decisione della Corte Suprema, resa possibile proprio dalla nomina dei tre giudici conservatori scelti da Trump nel suo precedente mandato. Sull’Ucraina, l’idea di mettere fine alla guerra, imponendo di fatto a Kiev di accettare lo status quo sul campo di battaglia, in cambio della protezione militare Usa – ma non l’ingresso nella Nato.
In Medioriente, da un lato la fine delle (flebili) restrizioni imposte da Joe Biden a Benjamin Netanyahu, dall’altro (come è emerso in un retroscena di questi giorni) la richiesta al premier israeliano di concludere la guerra “entro gennaio”, data del possibile nuovo insediamento alla Casa Bianca. La polarizzazione, a tre giorni dall’Election Day del 5 novembre, è assoluta. I due candidati appaiono di fatto testa a testa, sia nel voto popolare che, soprattutto, nei sette Stati-chiave che determineranno l’esito della corsa per la Casa Bianca. Le differenze, se ci sono, sono di 1-2 punti percentuali, entro il margine di errore delle rilevazioni. Nessun analista politico si sbilancia in previsioni. Quel che è certo, è che Trump e i Repubblicani già annunciano battaglia, per ora solo nei tribunali, in caso di una nuova sconfitta.