Lo studio di Boston Consulting Group e Quantis
Assicurare alle aziende l’accesso a materiali sostenibili è urgente, tuttavia la domanda di materie prime a basso impatto climatico (definite per questo ‘preferibili’) potrebbe superare l’offerta fino a 133 milioni di tonnellate entro il 2030, pari a più di sei volte la produzione indiana di questi materiali nel 2021. Come illustra l’ultimo studio di Boston Consulting Group (BCG) in collaborazione con Textile Exchange e Quantis, dal titolo ‘Sustainable Raw Materials Will Drive Profitability for Fashion and Apparel Brands’, le materie prime hanno un ruolo fondamentale poiché costituiscono fino a due terzi dell’impatto climatico di un marchio di moda. Nei prossimi 4 anni entreranno in vigore oltre 35 nuove norme per il comparto fashion in tutto il mondo legate alla sostenibilità, che punteranno, tra le altre cose, a creare delle linee guida per il design dei prodotti e stabilire i requisiti per l’etichettatura. Il settore ha quindi accelerato il passo verso la sostenibilità, e oltre l’85% dei brand leader di vendite ha dichiarato pubblicamente obiettivi di decarbonizzazione per le proprie supply chain.
Ricci (Bcg): “Adattarsi velocemente alle normative in arrivo”
“Le aziende del settore affrontano oggi una doppia sfida: raddoppiare gli sforzi per ridurre le emissioni di carbonio e, allo stesso tempo, riuscire ad adattarsi velocemente alle normative in arrivo – ha dichiarato Guia Ricci, Managing Director e Partner di BCG -. Il successo su entrambi i fronti richiede una strategia strutturata che non solo prenda in considerazione la necessità di materie prime sostenibili, ma che sia in grado di garantirne la fornitura per il futuro”. La prima necessità da affrontare riguarda la capacità di aumentare significativamente la quota di materie prime ‘preferibili’ all’interno del proprio portafoglio. Nel modello di analisi proposto nello studio, farlo potrebbe portare ad un aumento del profitto netto del 6% su un periodo di cinque anni. Ad esempio, un marchio di moda con un miliardo di dollari di entrate annuali ha il potenziale per sfruttare un’opportunità cumulativa di circa 100 milioni di dollari in cinque anni. Le regolamentazioni che saranno definite nei prossimi anni hanno una portata senza precedenti per l’industria dell’abbigliamento e potrebbero pertanto generare qualche difficoltà di assestamento. Prendendo ad esempio l’emblematico UK Modern Slavery Act del 2015, il report mostra infatti che, ad oggi, solo il 15% dei marchi di lusso presi in analisi è conforme a tutte le sue linee guida.
Nel 2030 solo il 19% materie prime sarà sostenibile
Nonostante il crescente numero di impegni e obiettivi di decarbonizzazione in tutta l’industria della moda, viene riportato nello studio, questa non ha ancora mandato un segnale forte ai fornitori sul crescente uso di materia prime ‘preferibili’, con il conseguente disallineamento con produttori di materie prime e agricoltori, i quali non si sentono ancora pronti ad assumersi i rischi legati a un aumento dell’offerta di materiali sostenibili. Il rapporto stima, infatti, che nel 2030 solo il 19% dei materiali prodotti sarà sostenibile, data l’attuale mancanza di economie di scala. La catena del valore nel comparto del fashion, viene ricordato, è lunga e complessa. Si pensi ad esempio al viaggio di un filato, che attraversa molteplici fasi di lavorazione (tintura, tessitura, taglio, cucito, confezionamento, distribuzione), tutte assegnate a diversi attori della value chain situati in Paesi diversi. Ogni fase ha specifici impatti ambientali, in termini di utilizzo di processi energivori, di consumo di acqua e suolo, di impiego di sostanze chimiche, e ciascuno di questi impatti deve essere rendicontato. “Sempre più Chief Sustainability Officer della moda italiana si stanno muovendo per incentivare l’efficientamento energetico dei propri fornitori diretti, attivando progetti dedicati per supportarli nella raccolta dati e nel calcolo di obiettivi di riduzione delle emissioni – spiega Luca Mosca, Fashion & Sporting Goods Lead di Quantis in Italia -. Questa necessità è una delle ragioni per cui sempre più brand del lusso fanno scelte di integrazione verticale, portando realtà leader italiane a porsi come conglomerati di expertise dell’eccellenza manifatturiera nazionale. Per le maison si tratta dell’opportunità di lavorare con filiere più vicine, dal punto di vista geografico e non solo”. Il migliorato impatto in termini di emissioni non è l’unico aspetto positivo di tali scelte, che portano vantaggi reciproci per aziende e fornitori, nonché a livello di sistema Paese. Per i fornitori si traducono in nuove risorse su cui fare leva per l’innovazione, la digitalizzazione e la sostenibilità, mentre per i brand l’integrazione verticale è chiave per garantire la conservazione di competenze di alto livello nel perimetro aziendale. Infine, il miglioramento della trasparenza e della tracciabilità della catena di fornitura consente alle aziende di identificare e mitigare in modo più efficace i rischi legati alla sostenibilità sociale, tema di importanza critica per il cliente finale e la industry tutta.
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