Roma, 15 gen. (LaPresse) – “Non spettava alla procura” di Palermo “valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica”, né “omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione”, perciò quelle intercettazioni “devono essere distrutte, in ogni caso, sotto il controllo del giudice, non essendo ammissibile, né richiesto dallo stesso ricorrente, che alla distruzione proceda unilateralmente il pubblico ministero”. E’ quanto scrive la Corte Costituzionale nella sentenza, depositata oggi, sul conflitto tra il capo dello Stato Giorgio Napolitano e la procura di Palermo. “Il presidente della Repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni”, sottolinea la Consulta nelle motivazioni, sottolineando che le sue attività di ‘moral suasion’ “sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi”.

“È indispensabile – scrivono i giudici – che il presidente affianchi continuamente ai propri poteri formali, che si estrinsecano nell’emanazione di atti determinati e puntuali, espressamente previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il ‘potere di persuasione’, essenzialmente composto di attività informali, che possono precedere o seguire l’adozione, da parte propria o di altri organi costituzionali, di specifici provvedimenti, sia per valutare, in via preventiva, la loro opportunità istituzionale, sia per saggiarne, in via successiva, l’impatto sul sistema delle relazioni tra i poteri dello Stato. Le attività informali sono pertanto inestricabilmente connesse a quelle formali”.

“Le suddette attività informali – continua il documento – fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici, implicano necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocutori. Le attività di raccordo e di influenza possono e devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali ed indebite. L’efficacia, e la stessa praticabilità, delle funzioni di raccordo e di persuasione, sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi. Non occorrono molte parole per dimostrare che un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione – che costituisce il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana – sarebbe destinata a sicuro fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche”.

“La discrezione, e quindi la riservatezza, delle comunicazioni del presidente della Repubblica – prosegue il testo – sono pertanto coessenziali al suo ruolo nell’ordinamento costituzionale. Non solo le stesse non si pongono in contrasto con la generale eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma costituiscono modalità imprescindibili di esercizio della funzione di equilibrio costituzionale – derivanti direttamente dalla Costituzione e non da altre fonti normative – dal cui mantenimento dipende la concreta possibilità di tutelare gli stessi diritti fondamentali, che in quell’equilibrio trovano la loro garanzia generale e preliminare”.

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