Michele Emiliano: "Un congresso ad aprile senza conoscere la legge elettorale, è una di quelle cose che fa rischiare la rottura"

Chissà se è l'ultima volta in cui Renzi, Bersani e D'Alema staranno seduti insieme nella stessa sala per la direzione del Partito democratico. Il centro eventi di via Alibert, ricordato per uno dei momenti migliori della storia del Pd renziano vale a dire la scelta di Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica, potrebbe diventare il simbolo di un "ciclo che si chiude" con qualcosa più del fantasma di una scissione all'orizzonte.

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La minoranza ha ottenuto che si faccia il congresso e, implicitamente, che Matteo Renzi si dimetta anche da segretario. Un'altra vittoria, dopo quella del 'No' al referendum. Ma non è ancora chiaro quanto tempo ci sarà per la fase congressuale. Pier Luigi Bersani chiede che si faccia prima la legge elettorale – "entro giugno" – e soltanto dopo inizi il congresso. Ma il segretario dimissionario mette le mani avanti: "Il congresso si farà nei tempi decisi dall'Assemblea, come previsto dallo Statuto". Assemblea che sarà convocata sabato o domenica. "Chiedo di garantire la conclusione normale della legislatura", aggiunge Bersani, precisando che "la prima cosa da dire all'Italia e al mondo è quando si vota". E Renzi: "Non decido io quando si va a votare. Ci sono aspetti positivi tanto nel votare prima quanto nel votare dopo. Il congresso non è legato alle urne". Già, tutto qui il nodo: le minoranze del Pd vorrebbero andare al 2018, come non ha dimenticato di ricordare Prodi, avendo così il tempo di vincere eventualmente un congresso e di modificare lo statuto per scindere le cariche di segretario e premier onde avere una chance in più. Tuttavia il documento della minoranza nel quale si chiedeva il sostegno al governo Gentiloni fino alla scadenza della legislatura e il congresso a partire da giugno, facendo prima una conferenza programmatica, non è stato messo al voto. La decisione è stata presa dal presidente del partito, Matteo Orfini dopo che la direzione con 107 voti ha approvato l'ordine del giorno della maggioranza che invita "il presidente dell'assemblea nazionale a convocare l'assemblea per l'avvio dell'iter congressuale auspicando la definizione di regole analoghe a quelle utilizzate per lo svolgimento del congresso del 2013? (12 i voti contrari e 5 gli astenuti). "Siamo contrari alla mozione, abbiamo votato contro", spiega Bersani uscendo. Ma la decisione del presidente del Pd di non mettere entrambi i documenti in votazione in quanto antitetici tra loro – il via libera all'uno escludeva in automatico l'altro – è stata definita da Speranza una "forzatura" che "complica un po' le cose rispetto ad un buon dibattito".

L'incertezza del dopo fa pronunciare a Bersani un "Vedremo" in risposta ai cronisti che gli chiedono se l'ipotesi scissione sia ancora in campo. Ha idee simili a quelle dell'ex segretario anche uno degli sfidanti di Renzi, il governatore della Puglia Michele Emiliano che nel suo intervento esclude che "si possa andare al congresso ad aprile, un congresso ad aprile senza conoscere la legge elettorale, è una di quelle cose che fa rischiare la scissione". Dello stesso avviso il senatore Sergio Lo Giudice che a nome di Retedem sostiene: "Non ce la facciamo in due mesi a fare il congresso, perché non deve essere solo un momento formale. Se vogliamo continuare un pezzo di strada assieme dobbiamo intenderci sul denominatore comune.

Incarichiamo un gruppo ristretto di definire in tempi brevi un percorso che porti al congresso". Lo Giudice tuttavia esclude l'addio al partito. Gianni Cuperlo prende la parola per secondo, subito dopo il discorso di Renzi e a lui si rivolge. "Matteo, tu non sei mai stato il mio avversario", sostiene ma dopo avverte: "Il Pd potrebbe finire" e paragona il Pd alle balene spiaggiate in Nuova Zelanda in questi giorni: "Il capo branco aveva perso l'orientamento. Sta a noi decidere se fare la parte delle balene o quella dei volontari che portano acqua per salvarle". L'altro sfidante di Renzi, il governatore della Toscana Enrico Rossi, sembra quasi accondiscendente: "Si è esaurita una fase e non si tratta di mettere in discussione nessuno", ma intanto invoca congresso e primarie. Per paradosso l'intervento più duro non è quello di Bersani – Roberto Speranza non prende la parola – o di Emiliano, ma è quello del ministro della Giustizia voluto da Renzi, Andrea Orlando. "I caminetti – replica il ministro al segretario uscente – sono iniziati perché manca una proposta politica forte. Le cose che hai detto oggi (Renzi,ndr) ci avrebbero aiutato se le avessi dette alla scorsa assemblea". "Dobbiamo trovare la via per discutere – rincara Orlando – . Il nostro statuto non è adeguato a fare questa discussione". Il punto è la divisione dei ruoli di premier e di segretario, escamotage che potrebbe unire le diverse minoranze contrarie a Renzi. E c'è chi mormora già di un ticket Orlando-Emiliano. A uscire, in silenzio, dall'ultima direzione Pd guidata da Matteo Renzi è Massimo D'Alema.
 

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