Il terzo studio dell'Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) fa giustizia di alcuni luoghi comuni sull'immigrazione, ma pone anche una serie di questioni reali
Con l'inizio dell'estate riesplode in Italia il problema degli arrivi via mare. Il terzo 'fact Checking' dell'Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) fa il punto sulla questione migranti, partendo da affermazioni che in genere ne caratterizzano il dibattito e cercando di fornire informazioni e spunti di riflessione fondati il più possibile su dati oggettivi.
I migranti ci rubano il lavoro? Intanto, è falso che i migranti ci rubano il lavoro e abbassano gli stipendi. Ma alcune situazioni richiedono attenzione, precisa l'Istituto per gli studi di politica internazionale. Raramente l'arrivo di un pur ingente numero di migranti incide in maniera significativa sui posti di lavoro e sul livello dei salari di un paese. Lo dimostra un vasto numero di studi nei paesi Ocse, dagli Usa al Regno Unito, dalla Germania all'Italia. È vero invece che i migranti vengono pagati in media meno dei nativi, spesso anche a distanza di decenni dal loro arrivo in un paese.
Negli Stati Uniti, una serie di studi sull'afflusso di 125.000 cubani in Florida nel famoso 'esodo di Mariel' del 1980 ha dimostrato che non c'è stato un effetto sui salari dei lavoratori locali. Allo stesso modo, uno studio del 2016 ha stimato che un ingente afflusso di richiedenti asilo in Danimarca negli anni Novanta ha spinto la manodopera locale a reimpiegarsi in lavori maggiormente qualificati, con un effetto addirittura positivo sui salari. Al netto di questi studi di lungo periodo, però, un improvviso ingresso di persone nel mercato del lavoro può avere effetti negativi sulla capacità di conservare il proprio posto da parte di lavoratori poco qualificati che abbiano operato in un solo settore per decenni, soprattutto in situazioni di alta concentrazione locale di migranti.
I migranti aumentano la criminalità? Non è sempre falsa la diceria secondo cui i migranti aumentano la criminalità. I reati non possono essere contati direttamente: l'unico modo che si ha per stimarli è osservare i destinatari di denunce e le persone in carcere. Dai dati emerge che, a fronte di una presenza di stranieri in Italia equivalente all'8,3% della popolazione nel 2015, le denunce nei confronti degli stranieri (escludendo quelle a carico di ignoti) erano il 32% del totale, mentre la popolazione carceraria era costituita per il 33% da stranieri. In altri termini, su 1000 stranieri presenti sul territorio italiano circa 3,5 sono in carcere, mentre su 1000 italiani lo 0,6 è detenuto. Sembra dunque che uno straniero abbia una probabilità di essere arrestato di oltre cinque volte superiore rispetto a quella di un italiano. Questi dati mascherano tuttavia una realtà più complessa. Innanzitutto, mentre stranieri e italiani vengono incarcerati in misura simile per certi tipi di reati violenti, come per esempio le lesioni dolose (5,5% dei reati per entrambe le nazionalità), gli stranieri vengono incarcerati in misura superiore per reati connessi alla produzione e spaccio di stupefacenti (45% contro 36%). Inoltre, all'aumentare dei migranti non sembra aumentare il loro 'livello di delinquenza'. Tra 2009 e 2015, a fronte di un aumento del 47% degli stranieri residenti la popolazione carceraria straniera è scesa dal 37% al 33% del totale. Se dunque gli stranieri continuano a essere denunciati e a finire in carcere di più rispetto agli italiani, non sembra essere provata la tesi per la quale una maggiore densità di stranieri fa aumentare la loro criminalità (per esempio perché farebbe crescere la loro marginalizzazione e segregazione).
I migranti arrivano e restano? Vero è che sempre più migranti arrivano e restano in Italia: se si considerano solo gli arrivi via mare (sbarchi), cresciuti da una media di 25 mila nel decennio 2004-2013 a 170 mila nel 2014-2016. Nel primo semestre del 2017 c'è stato peraltro un ulteriore incremento di circa il 15% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Ma il quadro delle migrazioni verso l'Italia va completato considerando l'immigrazione netta, che agli sbarchi somma l'immigrazione legale (composta principalmente da cittadini rumeni, albanesi, marocchini e ucraini) e sottrae chi lascia l'Italia (tra 2010 e 2016, il numero degli stranieri che hanno lasciato il Paese è più che raddoppiato, e oggi sfiora le 150 mila unità).
L'immigrazione netta è calata a 305 mila persone all'anno nel triennio 2014-2016, rispetto a una media di 350 mila persone all'anno nel decennio precedente (2004-2013). Senza ulteriori ingressi di stranieri, la popolazione italiana si ridurrebbe di oltre 140 mila abitanti all'anno.
Si può vietare l'ingresso nei porti italiani alle navi straniere con migranti? È possibile affermare che l'Italia non sia necessariamente e a priori l'unico 'luogo sicuro' dove sbarcare le persone salvate una volta portata a termine un'operazione SAR (search and rescue) da parte di una nave che non batta bandiera italiana. Sul piano del diritto internazionale, dunque, l'Italia avrebbe gli strumenti per affermare legittimamente che non dovrebbe essere considerata 'di default' il luogo in cui sbarcare i migranti salvati nel Mediterraneo centrale.
Vanno però al riguardo evidenziate alcune zone grigie. Per esempio, le convenzioni Unclos, Solas e Sar stabiliscono l'obbligo di assistere le persone in pericolo in mare e di condurre i sopravvissuti in un 'luogo sicuro geograficamente vicino'.
A giocare a favore dell'Italia è invece il fatto che la convenzione Sar prevede che a coordinare le operazioni di soccorso e salvataggio sia il paese cui compete quel tratto di mare. In teoria, negli anni precedenti molte operazioni di salvataggio sarebbero dunque state competenza di Malta – anche nel caso di barconi che si avvicinassero a Lampedusa, isola italiana che si trova all'interno della zona Sar maltese. Oggi però i salvataggi vengono spesso effettuati a ridosso delle acque territoriali libiche, dunque nella zona Sar della Libia. Essendo evidente che la Libia non possa essere considerata 'luogo sicuro', e con Malta che si tira indietro giustificandosi con l'impossibilità di accogliere nuovi migranti viste le dimensioni dell'isola (su cui abitano poco più di 430.000 persone), la responsabilità ricade sulle autorità italiane.
Nella sostanza, il nodo è di natura principalmente politica. Se l'Italia desse davvero seguito alla dichiarata intenzione di negare l'accesso ai propri porti a navi battenti bandiera straniera, e gli altri paesi europei non decidessero di sostituirsi all'Italia, si potrebbe correre il rischio di tornare a una situazione simile a quella dell'inizio del 2015. In quei mesi alla missione italiana Mare Nostrum si era sostituita la prima versione dell'operazione europea Triton, che aveva arretrato il baricentro dei salvataggi a ridosso delle acque italiane. In coincidenza dell'inizio di Triton erano aumentate le morti in mare, fino al tragico naufragio nel Canale di Sicilia del 18 aprile, nel quale persero la vita tra le 700 e le 900 persone e che convinse l'Europa a spostare le operazioni di Triton molto più a sud.
Profughi o migranti economici? È impossibile, inoltre, stabilire con certezza le cause principali che spingono i singoli migranti a mettersi in viaggio. Proprio per questo, da almeno un decennio l'Alto commissariato Onu per i rifugiati preferisce parlare di 'flussi misti'. È tuttavia possibile tentare una prima stima per capire se i flussi diretti verso l'Italia siano composti in primo luogo da persone che scappano da guerre e conflitti, o da persone alla ricerca di condizioni economiche migliori. Dai dati sull'immigrazione in Italia nel 2016, emerge che il 62% dei flussi è costituito da persone che arrivano in Italia in maniera regolare. A questi 'migranti economici' si possono sommare le persone che, pur giungendo via mare, se facessero richiesta d'asilo vedrebbero probabilmente rifiutata la loro domanda, ovvero il 23% dell'immigrazione totale. Possiamo quindi calcolare che per ogni 100 ingressi in Italia l'anno scorso almeno 85 fossero attribuibili a ragioni prevalentemente economiche. Allo stesso tempo, è falso che sull'identificazione dei migranti l'Italia è inadempiente. Malgrado un rapporto dell'Ocse sottolinei come solo il 29% dei migranti sbarcati in Italia sia passato dagli hotspot dell'Unione europea, oggi l'Italia identifica comunque la quasi totalità delle persone che arrivano sulle proprie coste.
Funzionano i ricollocamenti in Europa? Secondo l'Ispi, è vero che i ricollocamenti in Europa non funzionano. L'impegno preso nel 2015 dall'Ue con l'Italia era quello di ricollocare circa 35.000 richiedenti asilo verso altri Stati membri entro settembre 2017. Al 27 giugno, dunque a pochi mesi dalla fine del programma di ricollocamento, dall'Italia erano stati tuttavia ricollocati solo 7.277 richiedenti asilo (soprattutto verso Germania, Norvegia e Finlandia). Per capire quanto modesto sia il dato, basti pensare che solo il 26 giugno sono stati soccorsi in mare 13.500 migranti. Ma anche se l'Unione europea avesse mantenuto totalmente l'impegno sui ricollocamenti, avrebbe alleggerito l'Italia solo per il 10% del totale delle richieste d'asilo dal 2013 a oggi (circa 345.000).
Strutture sature in Italia? Le strutture di accoglienza italiane sono sature, ma ci sono precise responsabilità. A oggi i migranti e richiedenti asilo accolti in centri di prima e seconda accoglienza sono circa 179.000. Il Governo sta cercando di identificare strutture per arrivare a 200.000 posti entro fine anno. A dicembre 2016 l'Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) aveva raggiunto un'intesa con il Ministero dell'Interno perché i Comuni fino a 2000 abitanti accogliessero 6 richiedenti asilo ciascuno, mentre quelli oltre i 2000 abitanti ne prendessero 3,5 ogni 1000 abitanti. Se pienamente applicato, il piano permetterebbe di offrire prima e seconda accoglienza a circa 200mila persone. La realtà tuttavia è che, mentre molte città e centri maggiori stanno facendo quanto richiesto dal piano nazionale, a oggi solo 2.880 su 8.000 comuni accolgono almeno un richiedente asilo.
Si può fermare il flusso? È vero che risolvendo le crisi (Libia in primis) il flusso si interromperà. Ma soprattutto per chi fugge da guerre e conflitti. Nel breve periodo, gli shock causati da guerre e instabilità politica hanno certamente aggravato l'intensità dei flussi migratori verso l'Europa. E il 'buco nero' causato dalla crisi libica è sicuramente un fattore facilitante in un quadro in cui i trafficanti colludono con potentati e milizie locali. Ma, a differenza degli sbarchi in Grecia (nel 2015-2016 il 90% degli arrivi sulle coste greche era composto da siriani, afghani o iracheni, persone plausibilmente in fuga da conflitti), i flussi verso l'Italia sono solo in parte legati a conflitti (vedi punto 3) e i migranti giungono soprattutto dall'Africa subsahariana. Sul lungo periodo questi ultimi continueranno ad arrivare, per ragioni demografiche ed economiche. Sul versante demografico le previsioni dell'Onu al 2050 prevedono una popolazione dell'Unione europea sostanzialmente stabile (peraltro solo nel caso in cui l'afflusso di stranieri si mantenesse attorno al milione all'anno), mentre il numero di abitanti dei paesi dell'Africa subsahariana è destinato a raddoppiare, passando da uno a due miliardi. Sul fronte economico, inoltre, nonostante i tanti progressi fatti negli ultimi trent'anni, la regione dell'Africa subsahariana denuncia a tutt'oggi un livello di redditi pro capite tra i più bassi al mondo (1.652 dollari all'anno, contro i 34.861 dollari dell'UE28). Demografia e differenze di reddito continueranno dunque a rappresentare importanti fattori di attrazione verso l'Europa.
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