Room è soprattutto un’indagine psicologica e, se vogliamo, pedagogica. Un interessantissimo tentativo di scavare nel rapporto madre-figlio e, in parallelo, nel rapporto bambino-realtà
Il film c’è, altrove è piaciuto e l’Academy la sua parte l’ha fatta. Ora non resta che vedere quale sarà il responso del pubblico italiano. Quello che è certo è che non poteva esserci lancio migliore, per l’uscita nelle nostre sale di Room, dell’Oscar per la miglior interpretazione femminile ritirato domenica scorsa sul palco del Dolby Theatre da Brie Larson. Una prima consacrazione per lei, cresciuta a cavallo tra esperienze televisive e incursioni intelligenti nel cinema indipendente (da Scott Pilgrim vs. The Worlda Short Term 12), ma anche un bel riflettore puntato sul film diretto da Lenny Abrahamson, uscito negli Stati Uniti in un numero limitato di sale e sicuramente più semplice da etichettare come opera “da festival” che non da grande distribuzione. Non fosse altro che parliamo di un tema durissimo, visto che la sceneggiatura – tratta dall’omonimo romanzo di Emma Donoghue – ci racconta di una ragazza rapita e imprigionata per anni in una stanza, quella del titolo, dove dà alla luce un figlio destinato a crescere in cattività. A renderle Room un film degno della massima attenzione, e qui il peso dell’Oscar dovrebbe farsi sentire, è comunque proprio il lavoro attoriale. Che, vale la pena rimarcarlo, ha l’enorme pregio di non essere mai fine a se stesso, ma sempre al servizio della storia. Questo vale per Larson, brava nel non andare mai fuori dal binario gettandosi in una “semplice” disperazione.
Ma, soprattutto, per il giovanissimo Jacob Tremblay, a conti fatti il vero protagonista della pellicola. Sorvolando sulla trama, che sarebbe peccato mortale bruciare in una recensione e sulla quale è bene non spendere una parola se non a titoli di coda già conclusi, Room è soprattutto un’indagine psicologica e, se vogliamo, pedagogica. Un interessantissimo tentativo di scavare nel rapporto madre-figlio e, in parallelo, nel rapporto bambino-realtà. Dove, si suppone, la madre dovrebbe essere il tramite attraverso cui il figlio scopre la realtà. Ma questo processo come può svilupparsi a partire condizioni estreme di segregazione rispetto al mondo esterno? Room prova a raccontarlo nel modo più difficile, cedendo al personaggio del piccolo Jack la parola e affidandosi per larghissimi tratti al suo sguardo. Una scommessa quasi impossibile, che Abrahamson è però riuscito a vincere, grazie anche all’aiuto di una serie di comprimari a loro volta impeccabili, a partire dai veterani Joan Allen e William H. Macy. In questo senso, l’Oscar andato a Brie Larson e i riconoscimenti ottenuti da Jacob Tremlay – probabilmente considerato troppo giovane per una statuetta – non vanno considerati solo come frutto del loro indiscutibile talento, ma come la parte più visibile di un lavoro svolto da più persone e su più livelli. Senza quelle scelte di regia, quel cast, quella sceneggiatura, forse sarebbero state solo ottime interpretazioni. Così, invece, siamo oltre. Lo ha certificato la critica e – considerato un budget da 13 milioni di dollari – lo ha decretato anche il pubblico internazionale, garantendo finora 23,5 milioni di incasso. Da giovedì 3 marzo sapremo anche che cosa ne pensa l’Italia.
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