Il sequel arriva a 14 anni di distanza dal celebratissimo primo capitolo. Ma il 'souvlaki riscaldato' non piace al pubblico
Ci sono gag che riescono a far ridere anche nelle varianti più sottili. Ci sono i tormentoni, che non saranno un grande esercizio di stile, ma un sorriso possono strapparlo proprio giocando sulla ripetizione. E poi ci sono casi fortuiti in cui una risata arriva imprevista e a quel punto sarebbe anche saggio accontentarsi. Ai suoi tempi, parliamo del 2002, Il mio grosso grasso matrimonio greco fece sfracelli: al botteghino, dove partendo da una distribuzione limitata finì a raccogliere più di 368 milioni di dollari (ne era costato 5), ma anche di critica, basti pensare che Nia Vardalos arrivò addirittura in nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Il suo successore, cioè Il mio grosso grasso matrimonio greco 2, in uscita in Italia giovedì 24 marzo a 14 anni dal primo episodio, non pare però avere carte serie da giocarsi per ripetere l’exploit. Forse proprio perché, se il meccanismo comico vuole essere quello del tormentone, un decennio è troppo perché scoppi una risata. Oppure, in retrospettiva, perché quelle gag non hanno retto al tempo.
Volendo tentare una lettura più sociologica, e probabilmente molto più azzardata, si potrebbe anche ragionare su come il concetto di immigrato greco sia cambiato dal 2002 a oggi. Posto che il film è statunitense, e quindi sugli statunitensi andrebbe tarato prima di tutto il ragionamento, l’impressione è che 14 anni fa l’idea di una famiglia greca in terra straniera apparisse molto più esotica di quanto non appaia oggi. I meccanismi comici, allora, potevano nascere anche da un certo stupore, dall’impreparazione dello spettatore. Oggi, però, con tutto il parlare della Grecia che si è fatto, la riproposizione delle stesse macchiette, oltre a portare più verso lo sbadiglio che verso il riso, pare anche poco convincente. Chiaro, Il mio grosso grasso matrimonio greco 2 va comunque preso per quello che è: una commedia leggera, che gioca nella categoria del film domenicale da famiglie. Chiedergli uno scatto avanti legato all’attualità probabilmente sarebbe fuori luogo. Ma resta il fatto che la riproposizione a tratti pedissequa degli stessi stereotipi legati alla chiassosità, all’orgoglio patrio e all’amore familiare che alla fine trionfa, alla fine, non fa che stufare.
E pensare che un aggancio per provare a scombinare le carte ci sarebbe anche stato: la comparsa dello zio che arriva per la prima volta in America dall’Europa. Sacrificata, anche quella, sull’altare di una nuova festa di matrimonio, dove si rigiocano tutti i cliché del vecchio film e, in generale, dove tutto va come ci si aspetta, con la cerimonia in bilico fino all’ultimo e i buoni sentimenti che salvano la situazione. Verrebbe da dire "peccato", ma in fondo non ci sono neanche aspettative tali da restare veramente delusi. A conti fatti, il film fa quello che ci si immagina faccia un sequel di questo tipo: prova a rimettere insieme gli ingredienti e spera che la ricetta funzioni ancora. L’unico vero peccato, piuttosto, è che per ritrovare quel sapore ormai avrebbe poco senso anche riguardare l’originale. Nel frattempo, siamo cambiati troppo anche noi spettatori.
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