Il direttore artistico del Festival seduto tra il pubblico: "Riflettere sul valore della Memoria e sulla verità"

Il 10 febbraio, come sapete, è la giornata del Ricordo, istituita per tenere viva la memoria di una delle pagine più tragiche della nostra storia: l’eccidio di migliaia di nostri connazionali gettati nelle foibe dalle milizie del Maresciallo Tito e l’esilio di centinaia di migliaia di italiani costretti a lasciare la loro terra e i loro averi. Una vicenda a lungo dimenticata che appartiene all’epoca oscura delle dittature e ci fa riflettere sul valore della Memoria e soprattutto della verità. Perché la libertà non si conquista dimenticando o rimuovendo, ma ricordando. Sempre”. Con queste parole di Amadeus si è concluso il ricordo della tragedia delle foibe sul palco dell’Ariston. Un momento che era cominciato con il direttore artistico seduto tra il pubblico: “Sono qui in mezzo al pubblico, perché vorrei condividere queste parole con voi, perché riguarda tutti noi italiani”, ha detto Amadeus, leggendo le parole di Egea Haffner raccolte nel libro di Gigliola Alvisi ‘La bambina con la valigia‘, “che è una delle testimonianze più autentiche della tragedia vissuta da migliaia di italiani di Istria, Dalmazia e Venezia Giulia nel Dopoguerra”.

“La sera del quattro maggio – ha letto Amadeus – mamma stava trafficando ai fornelli, papà era appena tornato dalla gioielleria e si stava lavando prima di sedersi a tavola. Poi, ecco tre colpi imperiosi alla porta. Io ero già a letto o forse ero rimasta a dormire da nonna Maria, non l’ho mai saputo, ma ho immaginato tante volte la scena. Quella visita a un’ora così inconsueta poteva significare una sola cosa: l’arrivo della polizia del maresciallo Tito, i Titini! Sono qui, cos’è successo? – chiese mio padre. Niente, solo un controllo. Risposero. Deve seguirci al comando. – Devo portare qualcosa? – chiese ancora mio padre, forse solo per guadagnare un po’ di tempo. – No, è solo un controllo. Papà indossò la giacca e raccomandò alla moglie di non preoccuparsi e di badare a me che tanto si sarebbero visti dopo poco, pochissimo… oppure fu trascinato via senza avere il tempo di trovare una sola parola speciale per quell’addio. Che importanza ha, in fondo? Quella fu l’ultima volta che mia madre lo vide. Le donne della mia famiglia pregarono e sperarono: Che mio padre venisse rilasciato perché non aveva mai fatto nulla di male ai partigiani slavi che ora spadroneggiavano in città. Che fosse stato portato in un campo di prigionia, anche lontano, non importava, perché così prima o poi avrebbe fatto avere notizie di sé tramite la Croce Rossa Internazionale. Pregarono e sperarono. L’altra ipotesi che temevano, infatti, oscurava la vista e rallentava il cuore fino a fargli perdere un battito: foibe”. 

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