Un viaggio tra memoria, rinascita e mondi invisibili

Gio Evan attraversa linguaggi e forme d’arte con la stessa naturalezza con cui attraversa il mondo. E dopo gli ultimi mesi trascorsi tra Amazzonia, Perù e Thailandia, assorbendo silenzi atavici e parole senza tempo, torna con una nuova canzone, un tour teatrale e un romanzo intimo e spirituale.

Dal 21 marzo il suo nuovo singolo ‘Turno di notte’ illumina l’oscurità con una riflessione sulla memoria, sul tempo che scivola e su chi resta. Il brano è un omaggio alla madre, una figura che per Evan non è solo assenza, ma un “varco ancestrale”, una connessione con il cielo: “È stata la prima ad andarsene dalla Terra. Ha creato un contatto, vuoi o non vuoi, credi o non credi”, spiega l’artista a LaPresse. E non c’è retorica nel suo modo di raccontarlo. La malinconia è solo una parte del quadro, accanto ad una “forte rinascita”, un’urgenza di tenere insieme passato e futuro. ‘Turno di notte’ è un album di famiglia in musica, un “albero genealogico” con radici profonde: “C’è chi va e c’è chi torna – aggiunge – Mi sembrava giusto compattare tutto in un cassetto dove poter ritrovare ogni pezzo della mia storia”.

Ma Gio Evan non si ferma alla musica. In autunno tornerà in scena con ‘L’affine del mondo’, un nuovo tour teatrale che è una dichiarazione di intenti. In un mondo che si sgretola nei conflitti, Evan risponde con un’idea semplice e rivoluzionaria: l’affinità.
“L’affinità è il primo patto per creare un insieme. Se non sei affine, se non c’è sintonia, c’è scontro. E lo scontro è guerra”, aggiunge. “I conflitti nel mondo odierno? Mi destabilizzano, mi affliggono. E’ un’apocalisse. Ma non dobbiamo salvare il mondo – dice – Abbiamo bisogno di salvare l’intorno, quei tre metri oltre il nostro corpo”. E ancora: “Cosa ci rende diversi dall’America o dalla Russia se quando c’è da ammalare il prossimo, se c’è da distruggere, siamo i primi a farlo?”. Lo spettacolo sarà un mosaico di poesia, fisica quantistica, stand-up comedy e musica, perché il mondo di Evan fatto di “lemmi”, note e silenzi, è un equilibrio tra profondità e leggerezza. Evan vuole portare il pubblico in un altrove, un territorio dell’immaginazione che il quotidiano non concede: “Mi piace che la gente esca dal teatro dicendo: ok, ho visto qualcosa che devo per forza vedere qui perché il mondo non me lo propone”.

Se la musica è memoria e il teatro visione, la scrittura è iniziazione

‘Le chiamava persone medicina’, il suo ultimo romanzo che uscirà ai primi di aprile, è una storia di trasformazione. Racconta Marelargo, un bambino di undici anni “che deve essere custodito”, che trova rifugio dalla nonna, immerso nella montagna e nei suoi valori inestimabili. È una storia di silenzi, di parole non dette e di incontri che guariscono: “Più che di fragilità, il libro parla dell’importanza dell’invisibile. È una lezione sull’invisibile”, spiega Evan. Marelargo è gracile, la città lo ferisce, la montagna lo ricostruisce. La nonna è la sua guida, una figura che incarna non solo la saggezza contadina, ma anche le voci di tutti coloro che hanno insegnato all’autore il valore del tempo lento, della natura, dell’essenziale. “Da piccolo mi è stata diagnosticata un’alta sensibilità, quella che chiamiamo erroneamente ipersensibilità”, e così il romanzo diventa un viaggio autobiografico mascherato da fiaba, una matrioska di incontri e lezioni trasformate in parole.

A chi gli chiede da dove nasca tutta questa urgenza creativa, risponde con la sua solita schiettezza: “Mi annoio se sto fermo. Se sto a casa leggo molto e scrivo poco”. Per questo è poeta, cantautore, performer e filosofo di strada. Per questo parte, sempre. Negli ultimi mesi ha trascorso settimane con una tribù che ha conosciuto gli “uomini bianchi” solo negli anni ’60. Anche il suo nome d’arte nasce in viaggio, dopo aver attraversato India, Sud America ed Europa in bicicletta, vivendo accanto a maestri e sciamani, in Argentina, Giovanni Giancaspro viene ribattezzato Gio Evan, un’identità che racchiude la sua essenza errante e poetica. “Stare con loro mi fa sentire più nel mio posto. Ho più difficoltà ad andare in un ristorante a Milano che a mangiare con loro. Abbiamo mangiato piranha e vermi e io mi sentivo più giusto, nel Dharma, come direbbe Buddah”. È un’esigenza profonda, una ricerca di radici e autenticità che lo riporta sempre lontano dalle convenzioni: “Lì dove inizia una forchetta inizia il mio disagio”.

Ritorno a Sanremo?

Evan ha attraversato deserti, giungle, comunità isolate. Ma la domanda più prevedibile resta inevitabile: torneresti a Sanremo? Sorride. “Se faccio il pezzo giusto, perché no?”. “La prima volta che l’ho visto è stata quando ci ho partecipato – confessa l’artista classe ’88, nato a Molfetta, che nel 2021 aveva portato sul palco dell’Ariston il brano ‘Arnica’ – Non avevo mai avuto la televisione, ero sempre in viaggio”. Sanremo per Gio Evan è stato un’esperienza surreale, un mondo che lo ha accolto ma che non ha mai davvero abitato. “Ero impreparato, e non sapevo muovermi – conclude – Avevo un pezzo pesantissimo, super triste, ma io ero felice. Ora che so come funziona, mi piacerebbe ritornarci”.

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