Mito intramontabile entrato nella storia, la 'Freccia del Sud' è stato, e resta, il simbolo italico della velocità
Dieci anni senza di lui, volati via così velocemente come uno dei suoi 100 metri. Era il solstizio di primavera del 2013 quando Pietro Mennea e il suo dito alzato, simbolo di felicità e umiltà, con cui celebrava ogni vittoria, ha toccato il cielo lasciando sulla terra tutta la sua leggenda sportiva. Da allora l’atletica italiana, figlia delle sue gesta, ha iniziato a correre e crescere senza di lui ma comunque sempre più rapidamente, spinta dall’aurea di un mito che non l’ha mai lasciata sola. Eventi, memorial, celebrazioni, targhe, docufilm e anche una miniserie tv su Rai1 (nel 2015) si sono susseguiti e continuano a farlo in quest’ultimo decennio, orfano della ‘Freccia del Sud’ diventato talmente popolare da trasformarsi in un modo di dire (‘Ma chi sei, Mennea?”, come il titolo dell’ultimo tributo che gli ha dedicato sabato scorso Rai Sport e Rai Teche). Perché per 40 anni è stato, e resta, il simbolo italico della velocità. Da lassù, l’uomo che usava la pista come un calvario per andare oltre le proprie forze, continua a segnare la via. E la lunga serie di celebrazioni e iniziative terrene, a partire dal ‘Mennea Day’, in ricordo del record mondiale dei 200 metri piani del 1979 nell’aria rarefatta di Città del Messico con quell’indimenticabile 19″72 stampato nella memoria di almeno tre generazioni (tuttora record europeo, e lo fu del mondo per 17 anni), sono serviti non solo per aggrapparsi al ricordo di un campione che fece innamorare l’Italia con le sue imprese, ma anche per spingere l’Italia oltre, farla davvero piùà atletica, segnare un cambio di passo e al tempo stesso diffondere le qualità di un uomo eccezionale per tenacia, volontà, forza e sacrificio, dentro e fuori dalla pista.
Sono tanti i modi, da quando Mennea ha compiuto l’ultima corsa frenata da un tumore al pancreas a 61 anni, per promuovere la bellezza di una disciplina olimpica, regina dello sport, che trasforma i campioni in eroi. In questi dieci anni l’Italia dello sprint, ma non solo, ha trovato il modo di celebrare il talento di Filippo Tortu, capace di abbattere nel 2018 il muro dei 10″, traguardo che il barlettano sfiorò più volte. E poi di vivere le emozioni più belle, quelle olimpiche di Tokyo, con l’impresa di Marcell Jacobs – oro olimpico dei 100 metri e suo acclamato erede – e della staffetta azzurra 4×100 che stregò il mondo con quella rimonta eccezionale di Tortu, proprio allaà Mennea. Tokyo 2020 come Mosca ’80, con quella magica rimonta sul britannico Allan Wells che gli valse l’oro sui 200 metri e la piena consacrazione.
Le sue falcate scomposte ma estremamente efficaci, legate ad una esplosività nelle caviglie fuori dal comune, restano impresse nell’immaginario collettivo. Ed è come se la sua morte non fosse mai avvenuta realmente e non fosse riuscito a prenderlo. “Quando ho sentito che erano passati già dieci anni, è impossibile sia passato così tanto tempo. Credo sia anche positivo tutto questo, significa che è sempre con noi. Quando non ti accorgi del tempo che passa vuol dire che non lo abbiamo dimenticato e che il ricordo è lo stesso”, ha confessato Sara Simeoni, altra icona dell’atletica di quegli anni dorati e di un’atletica, fatta di maglia di lana e calzamaglia, pocoà sintetica e brandizzata ma anche molto ‘concreta’.
Sulla “Freccia del Sud” circolano storie di allenamenti impossibili (ripetute infinite sui 300 metri ‘zavorrate’ con cavigliere imbottite di pallini di piombo e nascoste sotto una tuta lunga), ‘sedute’ piene di fascino (gli inseguimenti alla Vespa guidata sul tartan dal suo allenatore Carlo Vittori, quasi a simulare un levriero che va a caccia della preda) e tanti curiosi aneddoti. Come quello che lo vede giovanissimo sfidare due automobili in velocità su uno stradone di Barletta, sulla lunghezza di 50 metri. Le batté entrambe per poter avere i soldi e comprarsi una bibita o un panino. Si racconta anche che il consiglio di intraprendere gli studi in scienze politiche, ‘corso’ da affrontare di pari passo con la carriera agonistica, gli venne dato da Aldo Moro, allora ministro degli Esteri.Una star di altri tempi eppure mai così vivo e presente ancora nei cuori degli appassionati. Esempio di costanza, Mennea è andato veloce in tutto, una volta messe le scarpette nella scatola dei ricordi senza più tirarle fuori, neanche per una ‘sgambata’. Oltre alla laurea in scienze politiche, Mennea si laureò poi in giurisprudenza, scienze motorie e lettere. Lavorò come curatore fallimentare, avvocato e insegnante di educazione fisica, oltre che come docente universitario ed europarlamentare. Una vita sempre sui blocchi di partenza, al massimo. Dove a prenderlo è stato solo il destino.
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