Con il pettorale 261 in gara nel 1967 a Boston: "La corsa è uno strumento per l'empowerment femminile"
Nel 1967 Kathrine Switzer era solo una ragazza che voleva correre la sua prima maratona. Ma quella gara, e quella ragazza, hanno cambiato la storia dello sport e delle donne, grazie a una serie di foto che hanno testimoniato il momento spartiacque in cui K.V. Switzer, riesce a resistere con l’aiuto dei suoi amici all’assalto di uno degli organizzatori della Boston Marathon che tenta di allontanarla dal percorso. “E’ stato il peggior momento della mia vita, ed è stata la cosa migliore della mia vita”, racconta in un’intervista a LaPresse l’attivista, che oggi guida una fondazione –la 261 Fearless, come il numero di pettorale che indossò quel giorno – dedicata all’empowerment femminile.
Sapevi, quando ti sei iscritta alla Boston Marathon, che stavi facendo qualcosa di così potente per le donne di tutto il mondo?
No, ero una ragazzina che voleva correre la sua prima maratona. Ero ispirata dal mio allenatore, Arnie Briggs, che era un uomo molto umile, era il postino dell’università, ma viveva per la corsa, perché lo faceva sentire forte e potente. E soprattutto, viveva per il giorno della Boston Marathon, era il giorno più importante della sua vita, perché finiva sul giornale, parlava con le ragazze del Wellesley College, che lo baciavano. Più volte è stato tra i primi dieci classificati. Era un uomo semplice, ordinario, ma per me era un eroe, il modo in cui parlava mi dava entusiasmo. Gli dissi “voglio farlo anche io”, e lui mi rispose: “Nessuna donna può farlo, è una distanza troppo grande”.
Come hai reagito?
Mi arrabbiai moltissimo. Dissi “so che posso farlo”. E lui cercava di spaventarmi, “devi allenarti, ma è impossibile che una donna corra 42 chilometri”, allora gli dissi “ehi, guarda che è già successo, l’ha fatto una donna lo scorso anno, Roberta Gibb”. E lui non mi credeva, diceva “non è possibile, sarà partita a metà gara”.
Perché lei non era regolarmente registrata.
Esatto, e quindi non c’era un risultato ufficiale, per cui lui non mi credeva. Ero arrabbiatissima, gli dissi, “guarda, che tu ci creda o no io so che posso farcela”. Così lui mi sfidò, disse che se gli avessi dimostrato con i fatti di essere in grado, sarebbe stato il primo ad accompagnarmi alla maratona. Allora ci siamo allenati, fino ad arrivare a un allenamento di 42 chilometri, lui era incredulo e io gli dissi “Dai, non è abbastanza, corriamo altri 8 chilometri, arriviamo a 50”. Non ci poteva credere che potessi correre ancora! L’ultimo chilometro praticamente barcollava, quando abbiamo finito io saltellavo dicendo “Ce l’ho fatta, si va a Boston!” e lui è praticamente svenuto.
Che ti ha detto?
Ha dovuto ammettere che le donne hanno un’incredibile resistenza, un potenziale nascosto. In quel periodo mi allenavo con la squadra maschile di cross e riuscivo a stare dietro agli altri, perché loro avevano potenza e velocità, ma io avevo la resistenza.
Quindi eri pronta per Boston.
Ero molto eccitata per me stessa ma non ne ho fatto chissà che storia, perché sapevo che l’aveva già fatto una donna, era sui giornali.
Come è andata con l’iscrizione? Firmasti con le iniziali del nome per evitare di essere bloccata?
Il coach venne al dormitorio con i documenti e mi disse di firmarli, io in verità pensavo solo di andar lì e correre ma lui no, diceva che era una cosa seria, dovevo pagare la tassa di iscrizione. Ma c’era il fatto che nessun’altra donna era in gara, pensavamo fosse contro le regole.
Lo era?
Abbiamo controllato e non c’era niente, Arnie credeva che fosse perché nessuno pensava che le donne potessero iscriversi. Ho firmato con le iniziali ma è una cosa che facevo sempre, perché mio padre sbagliò il mio nome sul mio certificato di nascita, ed ero stanca di vedere il mio nome scritto male. Studiavo giornalismo e vedevo gli autori fare così, J.D. Salinger, T. S. Eliot, allora io firmavo K. V Switzer. Non era per imbrogliare, fu una coincidenza. Così come fu una coincidenza quello che accadde quando arrivammo a Boston, dove nevicava e c’era un tempo terribile: il coach disse a me e agli altri ragazzi di restare in auto e non prendere freddo, e ritirò lui il pettorale per tutti.
Come reagirono gli altri partecipanti alla gara nel vederti?
Erano tutti entusiasti! Mi dicevano “Che bello, vorrei corresse anche mia moglie”. Furono molto accoglienti, io poi correvo sempre con i ragazzi della squadra di cross, ero tranquilla. Ma poi la storia la sapete tutti: dopo circa un miglio e mezzo di gara arrivò il bus della stampa, su cui c’era l’organizzatore della gara, Jock Semple, e i giornalisti lo stuzzicavano, dicevano “ehi, c’è una ragazza nella tua gara!”, gli facevano notare che avevo un pettorale, scherzavano sul mio nome. Lui andò su tutte le furie, saltò giù e iniziò a strattonarmi cercando di strapparmi il numero. Ero spaventatissima, era spuntato dal nulla, sentivo i suoi passi che si avvicinavano. Il mio coach tentò di allontanarlo e lui lo spintonò. Eppure si conoscevano, erano amici, gli diceva “guarda che l’ho allenata, è a posto”, ma l’altro gli ripeteva di starne fuori. Il mio ragazzo spinse via Semple, lo fece letteralmente volare. Io ero spaventatissima, mi arrabbiai. Ora rido, ma allora fu orribile, Arnie mi urlava ‘Run like hell’, diamocela a gambe.
Come ti sei sentita?
Avevo vent’anni, ero una ragazzina, volevo solo correre. Pensavo che gli avessimo fatto male, che eravamo nei guai, che saremmo finiti in carcere. Sentivo le macchine fotografiche che scattavamo, noi tentavamo di allontanarci ma i giornalisti chiedevano all’autista di seguirmi, mi facevano domande, mi chiedevano cosa volessi dimostrare, cosa facessi lì, quando avessi intenzione di ritirarmi.
Che cosa hai risposto?
Dissi “Non smetto, la finisco sulle mani e sulle ginocchia se necessario, non mi fermo”. Arnie mi disse ‘Sei seria?’. E gli risposi ‘Sai, penso che abbiamo incasinato una gara importante, se smetto penseranno che le donne non possono farcela, non possiamo permettercelo. Ero davvero arrabbiata, le donne potevano andare all’università, laurearsi, e io ero stata trattata così. Ero imbarazzata, umiliata, ma sapevo che era importante finire, e sapevo di potercela fare. Certo, il tempo era tremendo ma io era abituata, mi ripromisi di diventare una buona atleta perché non volevo dicesse di me che ero una dilettante, cosa che per altro Semple fece.
Cosa disse?
Il giorno dopo disse che ero una ‘jogger’, perché ci avevo messo 4 ore e 20 minuti, in quel tempo – diceva – lui poteva fare la maratona camminando.
Perché secondo te nessun’altra donna ci aveva provato?
Me lo chiedevo, correre è così semplice ed economico. Mi sono risposta che era perché nessuno credeva che le donne ci sarebbero riuscite, e loro ci avevano creduto. Per cui mi ripromisi di cambiare le cose, ma prima dovevo cambiare Semple.
E lo hai fatto.
Più avanti abbiamo iniziato ad attivarci con altre donne, e abbiamo cambiato le regole, ci sono voluti cinque anni perché una donna potesse iscriversi a una maratona e fu proprio Boston la prima. Semple disse , “se vogliono correre la mia gara devono raggiungere il tempo di qualifica degli uomini”, che era 3 ore e 30 minuti, piuttosto stringente anche adesso. Ma in 8 ce l’abbiamo fatta, ci siamo registrate, abbiamo corso e abbiamo finito.
Hai mai chiarito con Semple quanto accadde quel giorno?
Siamo diventati molto amici, sono stata con lui poche ore prima che morisse ed è stato un dialogo molto emozionante. La gente parla di perdono, ma come fai a non amare qualcuno che ti ha dato il peggior momento della tua vita, che è diventato la cosa migliore della tua vita? La sua rabbia di quel giorno va vista dalla sua ottica, e lui ha rivoluzionato la mia vita, e questo ha rivoluzionato il mondo della corsa per le donne. Quindi ogni giorno lo ringrazio per avermi attaccato.
Probabilmente senza quel momento l’inclusione delle donne avrebbe richiesto molto più tempo.
Se non avessimo avuto quelle foto ci sarebbe voluto molto di più, sì, ebbero un grandissimo effetto.
Ma tu come hai iniziato a correre?
Avevo 12 anni, finii le elementari e stavo andando in un high school molto grande, con tantissimi ragazzi. Volevo essere popolare e pensai di fare la cheerleader, ma mio padre mi disse “Tu non vuoi fare il tifo, tu vuoi essere quella per cui le persone fanno il tifo”. Allora mi disse di scendere in campo, mi propose di far parte della squadra di hockey su prato, che non sapevo neanche cosa fosse, ma lui mi disse che sarei andata bene, perché sapevo correre. Mi fece correre un miglio al giorno nel nostro giardino, sette giri, ogni giorno, per tutta l’estate. Mi diceva: non è importante andare veloce, è importante finire. Mi innamorai della corsa, perché mi faceva sentire potente, e mi ha fatto sentire così ogni giorno della mia vita.
Che dicevano le tue amiche?
Le compagne di scuola pensavano fossi pazza, che mi sarebbero cresciuti i peli sul petto, che non avrei mai avuto un fidanzato, un marito, dei figli. Allora lavorai molto sul mio essere femminile, mettevo i reggiseni, il trucco, vestiti carini, ma non ho rinunciato a correre. Quando andai all’università chiesi al coach della squadra di atletica di potermi allenare con loro. I maschi avevano 25 sport tra cui scegliere, le donne sei, e mentre loro avevano le borse di studio i miei genitori spendevano un sacco di soldi per farmi stare lì. Mi sembrò così sbagliato.
Cosa rispose l’allenatore?
Mi disse che era contro le regole farmi entrare in squadra ma potevo allenarmi con loro. Poi però quando chiuse la porta lo sentì ridere con i colleghi e fare delle battutacce.
Cosa hai fatto?
Mi sono presentata all’allenamento, e i ragazzi furono tutti così simpatici. Fu così che incontrai il mio coach, il postino, che faceva il volontario e si offrii di aiutarmi.
Poi sei diventata un’ottima atleta.
Sono stata sesta al mondo, nel 1972 ho vinto la New York Marathon, quest’anno sarà il cinquantesimo anniversario. Poi realizzai che non avremmo mai avuto la maratona femminile alle Olimpiadi se non fossimo riusciti a raccogliere il parere favorevole di 24 paesi membri in tre continenti. Scrissi una proposta alla Avon Cosmetics dicendo che per loro sarebbe stata una grande pubblicità organizzare delle gare per donne. Mi dissero di no però mi assunsero.
E poi come è andata?
Ho insistito, e siamo riusciti a fare la prima gara femminile, ad Atlanta, nel 1978. Fu coperta da tutta la stampa nazionale, e loro furono contenti della pubblicità, così si convinsero a lanciare il mio programma: facemmo gare in 26 paesi, cinque continenti. Portammo i risultati al comitato olimpico internazionale per dimostrare che avevamo i requisiti. Nel 1980 chiudemmo le strade di Downtown Londra, per la prima volta, per organizzare il nostro grande evento. E siccome gli Usa boicottavano i giochi di Mosca, e la nostra gara era lo stesso giorno, i grandi network che non potevano andare a Mosca vennero a coprire il nostro evento, c’erano anche i rappresentati del Comitato Olimpico. Così si arrivò alla maratona femminile ai Giochi di Los Angeles, nel 1984. Se avessimo seguito il protocollo avremmo dovuto aspettare fino al 2012. Grazie agli sponsor riuscimmo anche a finanziare degli studi medici che dimostrarono, contrariamente a quanto si credeva, che gli sport di endurance erano perfetti per le donne. Le gare corte come i 100 metri non lo erano, i 10mila metri sì, è legato alla regolazione della temperatura corporea, alla resistenza al sonno, alla fatica, alla capacità di concentrazione. E’ stato il più grande traguardo della mia vita.
Quest’anno a Boston c’erano 16.803 uomini e 12.595 donne. Non la parità, ma comunque ci stiamo avvicinando.
A New York siamo a 24mila uomini e 26mila donne. Boston ha i tempi di qualifica per l’iscrizione che sono molto stringenti e più difficili per le donne, che hanno tanti impegni a casa e fuori e meno tempo per allenarsi, questo riduce i numeri. Ma se guardiamo per esempio alle mezze maratone le donne sono tantissime, perché richiedono meno impegno in termini di tempo.
Tu hai fondato un’organizzazione no profit dedicata all’empowerment femminile.
La 261 Fearless, 261 è il mio numero di pettorale del 1967, fearless significa ‘Senza paura’. Nel 2022, per il cinquantesimo anniversario dell’apertura alle donne della maratona, ho corso la mia nona Boston marathon, eravamo 118 donne e 7 uomini e abbiamo raccolto abbastanza soldi da lanciare a livello mondiale la mia charity. Quel numero, 261, per me significa tanto, negli anni la gente mi ha scritto di esserselo tatuato, mi dicevano di sentirsi invincibili ad avercelo addosso, lì ho capito che era diventato un simbolo, di chi è stato escluso, di chi si è sentito dire di non essere abbastanza. Ma la corsa ti fa sentire libero, ti fa sentire di poter fare tutto.
Penso che tutte le donne, nello sport, nel lavoro, nella vita privata, si siano trovate davanti quel muro almeno una volta.
Proprio così, e la corsa è uno strumento potentissimo per le donne, perché è facile, accessibile ed economica, è un primo passo verso il riappropriarsi del proprio tempo, della propria vita. Credevo di essere troppo vecchia per iniziare una nuova rivoluzione, un nuovo business, però è fantastico, anche se non ho mai lavorato così tanto nella vita. Non so dove porterà, ma ci battiamo contro le società e le culture che non prendono le donne seriamente, le chiudono in casa, non permettono loro di studiare, di guidare, di scegliere il proprio compagno. Sappiamo che la corsa è un linguaggio universale, ed è un grande strumento di empowerment: possiamo aiutare le donne a credere in sé stesse insegnando loro a correre, insegnando a prendere il comando della loro vita. Il mio traguardo, ora, è dare un’opportunità a ogni donna nel mondo, perché attraverso l’empowerment ti batterai per studiare, trovare un lavoro migliore, una retribuzione più alta. Non c’è empowerment senza indipendenza economica e questa è la parte più difficile per molte donne. Ci si chiede perché si rimane nelle relazioni tossiche, ma spesso è perché non ci si può permettere di scappare.
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