La frammentazione della rete rappresenta uno degli aspetti più rilevanti dell’evoluzione di internet nel nostro tempo
Tutti abbiamo una precisa immagine di Internet in testa: spesso è quella di una rete globale di interconnessioni che, nel giro di qualche frazione di secondo, può metterci in comunicazione con chiunque si trovi sulla faccia del pianeta. Non è un caso che locuzioni come “World Wide Web” e “rete” siano ormai sinonimo di “Internet“. Eppure, come riportato dall’articolo pubblicato su The Post Internazionale (TPI), ormai internet non è più uno spazio neutrale, né per singoli individui, né per gli Stati. Il processo di “balcanizzazione” della rete, noto anche come “Splinternet” ha distrutto ogni aspirazione verso un sistema che sia davvero globale, unico, aperto a tutti e privo di controllo. Criminali ed eserciti di hacker sono ormai parte integrante dell’ecosistema virtuale.
La balcanizzazione di Internet, o ancora sovranismo cibernetico, è la divisione di quest’ultimo in tante sotto-reti scollegate l’una rispetto all’altra, ciascuna con il proprio bacino di utenza, che può essere nazionale, continentale o internazionale. L’era di una internet comune, intesa come mero mezzo pacifico di globalizzazione tecnica, sembra ormai tramontata. Al suo posto, emerge un mondo sempre più disunito e deglobalizzato anche sotto il profilo della “quinta dimensione”, nel cyberspazio.
Dalla net globale al net locale
Lo studioso Scott J. Shackelford ha suggerito di suddividere la storia di internet in tre fasi. Una prima fase segnata da ottimismo e apertura a fine XX secolo, a cui seguì un periodo di crescente competizione tra attori privati e statali attorno alla governance di internet. Infine, una terza fase, in cui viviamo tutt’ora oggi, caratterizzata da un crescente protagonismo degli Stati per la costruzione di un ordine globale digitale a misura dei diversi interessi geopolitici.
Un secondo aspetto riguarda la crescente preoccupazione per la territorializzazione dei dati. Misure di data sovereignty, vale a dire l’obbligo di memorizzazione e conservazione dei dati in server compresi in aree geografiche determinate, sono sempre più incluse in diverse fonti normativi (ad es. nel GDPR).
Infine, il tentativo di partizionare il sistema di dominii e indirizzi IP lungo linee nazionali attesta l’interesse degli Stati nel costruire propri confini cibernetici, idealmente sovrapposti a quelli geopolitici esistenti.
Questo ultimo punto rappresenta un aspetto centrale della frammentazione di internet, che si trasforma sempre più in un insieme di intranet locali: reti di IP privati, il cui accesso alla internet globale attraverso gateway è monitorato da organismi pubblici di vigilanza (polizie postali, unità cibernetiche, servizi di sicurezza, ecc.).
Internet, insomma, diventa il nuovo mezzo per rendere il globo sempre meno globalizzato.
Una prospettiva di coesione: arginare il cyberspazio diviso?
Come sottolinea ancora l’articolo pubblicato da The Post Internazionale (TPI), sulla base di quanto finora prospettato, occorrerebbe porre l’attenzione su una politica strutturale finalizzata ad arginare gli effetti della frammentazione del cyberspazio.
Una politica che possa condurre ad una cyber-diplomacy efficace e bilanciata per gli interessi degli attori in gioco.
Il concetto stesso di sovranità digitale rischia di subire derivazioni autoritarie, legate ai sistemi politici degli Stati, ovvero alla gestione ideologico-politica che incide sulla gestione del potere statuale (si pensi al cd. Social scoring di derivazione cinese).
In un’ottica valoriale, per affermare una cyber-diplomacy ispirata all’obiettivo di garantire la pace e la sicurezza internazionale, è da ritenersi di primario interesse l’affermazione e implementazione di paradigmi quali la fiducia, la trasparenza, la diffusione di best practices e la cooperazione tra le nazioni in un dominio operativo potenzialmente idoneo ad essere terreno fertile per incidenti o vere e proprie crisi diplomatiche tra gli attori della comunità internazionale.
Per favorire una condivisa visione sulle delimitazioni del cyberspazio, che è un ambiente anarchico, popolato da una pluralità di attori, occorrerebbe individuare alcuni presupposti comuni.
Tali presupposti dovrebbero essere orientati da una cornice normativa idealmente condivisibile e giustificata, ad esempio, nel quadro del diritto internazionale consuetudinario e pattizio.
Definiti i presupposti strutturali per una condivisa visione di “quinto dominio”, potrebbe essere utile focalizzare l’attenzione sugli scopi e sulle attività che tali prospettive dovrebbero garantire e far rispettare.
Secondo un approccio treaty based, cioè orientato ad individuare uno strumento convenzionale o para-convenzionale di coesione, potrebbe essere oggetto di riflessione la previsione di un organo di controllo (body) che vigili sul corretto adempimento delle norme, anche di soft law.
Affinché questa prospettiva possa ritenersi realizzabile, è importante la partecipazione delle maggiori “potenze cyber” nella definizione di linee guida chiare per la condotta degli Stati nel cyberspazio, assicurando una due diligence degli attori statuali nel mondo digitale.
In tal senso, la produzione di atti di soft law, quali pareri o raccomandazioni, aventi ad oggetto il corretto adempimento delle norme e dei principi di un potenziale ed auspicato vettore convenzionale, o la produzione di reports indipendenti, o ancora segnalazioni da parte di organizzazioni non governative operanti nel settore, costituirebbero un criterio importante per affermare l’autorevolezza dell’approccio treaty based.
Per garantire la compliance degli Stati ad un cyberspazio non frammentato, sarebbe funzionale un’attività di monitoraggio di un ente terzo e sovranazionale, che abbia ad oggetto, inter alia, la limitazione dell’uso di strumenti cibernetici in ottica malevola, senza con ciò incidere sulle capacità di sviluppo o possesso da parte degli Stati.
In tale ipotesi, infatti, scaturirebbe, da un lato, uno scarso incentivo da parte degli Stati alla coesione intorno ad un siffatto strumento regolativo, “gelosi” delle loro capacità produttive e tecnologiche, rectius della loro sovranità; e, dall’altro, una limitazione preventiva delle capacità di sviluppo cyber, inadeguata rispetto alla natura dual use degli strumenti cibernetici.
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